In occasione di Fruit Exhibition, la rassegna dedicata all’editoria d’arte indipendente che si tiene a Bologna dal 2 al 4 febbraio, una riflessione sui magazine di moda.
Verso la metà degli anni Novanta il realismo fotografico soggettivo smise di essere un tema trattato da artisti d’avanguardia per entrare nelle riviste di moda, segnando l’inizio di un dialogo da allora mai interrotto. Quando la fotografia trovò spazio nel mercato dell’arte e l’arte contemporanea divenne più glamour, gli elementi stilistici si spostarono naturalmente dalla pratica artistica alla fotografia di moda. In questo contesto emerse Juergen Teller (n. 1964), che già all’inizio degli anni Novanta aveva conquistato una posizione dominante nell’immaginario della moda. Successivamente, ripropose i suoi lavori commerciali in libri e mostre, accanto a still life e fotografie personali, ottenendo un primo tiepido riconoscimento critico. Inizialmente il suo stile, pur di indubbio valore fotografico, appariva troppo legato al mondo esclusivo di modelle, musicisti e cantanti per essere preso sul serio dal mondo dell’arte. Oggi, come sanno i meno naive, proprio quel mondo è diventato il cuore pulsante del glamour. Nel 1999, ad esempio, con il progetto Go Sees, Teller documentò per oltre un anno le giovani modelle che si presentavano da lui in cerca di ingaggi, mostrando senza filtri le loro illusioni e una realtà ben lontana dallo scintillio della moda. Questo lavoro rivelò la sua capacità di superare la semplice creazione di immagini innovative per offrire anche una critica all’industria. Da allora Teller ha mantenuto una sensibilità schietta e spesso brutale, rivolgendosi sempre più verso la propria vita intima e abbattendo la distanza tra osservatore e soggetto, rendendo nei suoi lavori le vite delle celebrities apparentemente più accessibili. Ora, una nuova mostra intitolata 7 e ½, aperta il 13 aprile alla Galleria degli Antichi di Sabbioneta, offre l’occasione per comprendere l’evoluzione della sua arte negli ultimi anni. Il progetto curato da Mario Codognato misura in questo arco temporale evocato dal titolo, un periodo caratterizzato da un rinnovamento creativo coinciso con il sodalizio professionale ed esistenziale con la moglie e partner creativa Dovile Drizyte.
L’Italia è del resto un paese fondamentale per Teller che oltre agli ovvi motivi professionali legati ai brand del lusso che per più di trent’anni gli hanno commissionato campagne, si lega ai prodromi della sua carriera di fotografo: «è stato il paesaggio della Toscana quando ero ancora adolescente in vacanza in Italia ad ispirare il mio sguardo e spingermi a scattare foto» spiega Teller. Da allora, l’artista ha inanellato una serie di collaborazioni prestigiose, campagne che sono al tempo stesso diventate opere d’arte e pagine di storia della fotografia di moda, esposte in mostre dal respiro museale come le recenti al Grand Palais éphémère di Parigi (2023) e l’importante monografica in Triennale dell’anno scorso. Cosa aspettarsi dunque da questa nuova personale a Sabbioneta, all’interno di quello che insieme a Mantova rappresenta la “splendida cornice” storica riconosciuta come patrimonio Unesco? Ancora una volta, la realtà più vicina all’esperienza umana del suo autore. E se la dimensione affettiva condivisa con gli sguardi estranei ci spingerebbe ad avvicinare ingenuamente tale approccio a ciò che milioni di user mettono in scena regolarmente sui propri profili social, la distanza estatica, formale, performativa che sta dietro a una mostra e l’esperienza che ne consegue per i visitatori è incolmabile. «Ci sono immagini banali, eppure molto intime come le foto che scatto tutti i giorni al caffè che preparo per Dovile quando mi sveglio e glielo porto a letto» racconta Teller; una sorta di Sereno è di Drupi ma a parti inverse. Difficile dire in generale a che punto siamo della storia, se il privato è politico oppure esattamente l’opposto per capire un po’ di più; a Juergen Teller abbiamo chiesto di accompagnarci in questi sette anni e mezzo.
ⓢ Arte, moda, immaginario pop, dove si colloca più naturalmente il suo lavoro?
La mia attenzione si estende ben oltre l’immagine di moda fino a incontrare la dimensione storica. Detto questo ritengo che da sempre ho sentito la necessità di guardare alla storia, soprattutto quella contemporanea perché in fondo la mia carriera è iniziata fotografando la scena musicale. Quindi non mi sono mai ritenuto un fotografo di moda che improvvisamente ha iniziato ad interessarsi a qualcos’altro. Sicuramente negli anni la percezione di come può essere una foto di moda è cambiata radicalmente.
ⓢ La sua produzione tra mostre, volumi e campagne di moda è sterminata: che materiale ha scelto per documentare questi ultimi anni attività?
Ovviamente abbiamo fatto una scelta di quelle immagini che abbiamo ritenuto essere le più importanti di questi sette anni e mezzo, sono un modo per raccontare questo percorso della nostra vita insieme, sia professionale che privata. Perciò oltre a lavori che sono già stati pubblicati o mostrati saranno presenti anche lavori inediti che nessuno ha mai visto prima.
ⓢ La Galleria degli Antichi e la Sala degli Specchi di Palazzo Giardini sono siti storici fortemente connotati architettonicamente e intensamente decorati; in che modo le sue opere dialogheranno con quegli spazi?
Ho soltanto cercato di dare un senso allo spazio nel modo più intelligente possibile, non entrando se non inconsciamente in rapporto con i temi degli affreschi, dialogando invece di più con le qualità dello spazio: ad esempio sono molto interessato alle aperture e a come la luce entra nelle sale, non oscurando niente. Quindi si avrà la possibilità di vedere sia questo spazio incredibile e al tempo stesso di visualizzare molto bene il mio lavoro, sarà possibile vedere molto bene le fotografie e ci tenevo molto a che le due presenze fossero ugualmente valorizzate. Non era mia intenzione entrare lì dentro e invadere quel luogo. Mi interessa sempre trovare un equilibrio e un’armonia sul modo in cui distribuire i miei lavori nello spazio espositivo, che è a tutti gli effetti un allestimento site specific pensato insieme a Mario Codognato e grazie anche al progetto di Federico Fedel.
ⓢ Durante la conferenza stampa ha affermato che questa è, ad oggi, la più personale e intima delle sue mostre. Dato che lei è famoso per essersi messo a nudo (anche letteralmente) costantemente nella sua carriera, in che modo questo progetto per Sabbioneta segnerà un ulteriore immersione personale?
Credo che i visitatori avranno l’occasione di sentirmi ancora più nel profondo. Non si tratta soltanto di momenti di vita privata tra me e Dovile. Ho cercato di mettere a nudo i miei pensieri sulla vita nei suoi vari aspetti. Le mie impressioni, ciò che voglio sapere, il tipo di avventure che voglio intraprendere. Forse questa è anche la mostra più “politica” in certo senso, perché saranno evidenti le mie posizioni verso la situazione contemporanea che stiamo attraversando. Anche le foto scattate nei campi di sterminio nazisti hanno un peso e un senso più imminente che storico.

Dulia No.24, 2024 © Juergen Teller, All Rights Reserved

Jurgaičiai No.74, Lithuania 2022 © Juergen Teller, All Rights Reserved

We are building our future together No.98, Napoli, 2021 © Juergen Teller, All Rights Reserved

Tellerbier, 2024 © Juergen Teller, All Rights Reserved

Why Trump, New York 2017 © Juergen Teller, All Rights Reserved
ⓢ A proposito di questo: proprio nei campi di sterminio oggi diventati musei della memoria abbiamo visto la fotografia utilizzata da utenti comuni, usata nei modi più irrispettosi e idioti pur di provare le vertigini di una discutibile popolarità sui social. Lei che ha lavorato sull’idea di una fotografia diretta, non mediata, come guarda all’iperproduzione di immagini ‘banali’ che alimentano le piattaforme digitali?
Direi che ormai fa parte della nostra vita, è quasi un ossessione collettiva il fatto che tutti debbano fare fotografie, mostrare la propria vita, condividere le foto delle vacanze divertenti e mostrare quanto siano felici, e così via. È semplicemente la realtà di oggi. Ma il mio lavoro è molto più concettuale benché contenga a tratti elementi simili. Vedi, è molto diverso lavorare su un corpo di opere, pensare razionalmente in termine di una serie, invece di concentrarsi su singole immagini isolate; inoltre le mia esperienza della realtà non è nata attraverso un unico format digitale o un canale prestabilito da un’azienda. Ovviamente faccio parte di una generazione che ha avuto la possibilità di confrontarsi con mezzi analogici e cercare autonomamente la propria “forma”. Quindi quello che faccio ancora oggi è molto più complesso di quello che potrebbe apparire. In generale, credo che sia piuttosto negativo per gli esseri umani avere la possibilità di usare lo smartphone in questo modo. Le persone stanno diventando sempre più stupide, sempre più vanitose e il tutto si riduce a un modo di vivere estremamente superficiale, fatto di autocelebrazione. Pensano che l’importante sia essere fotografati in un ristorante alla moda facendo questo e quello, ma in realtà non significa nulla. È solo un’inondazione sempre crescente di spazzatura.
ⓢ Guardando alle sue foto, anche quelle più “dirette”, mi sono sempre chiesto se in realtà non ci fosse a monte una qualche preparazione in termini di riferimenti visivi, artistici, che pescano nella storia dell’immagine pittorica prima ancora di quella fotografica…
La verità è che c’è sempre una preparazione. È qualcosa di molto ben pensato rispetto a ciò che voglio fare. E all’interno di questa struttura, di questa mia idea di ciò che sto facendo, c’è uno spazio di libertà, una sorta di terreno di gioco, dove posso muovermi liberamente con il soggetto. Non mi interessa vincolare così rigidamente l’idea da renderla immutabile o per aderire a un riferimento: permetto che possa spostarsi, adattarsi alla vita. È però importante che ci sia un concetto, muovere da un’idea, ed è quindi inevitabile essere influenzato dalla vita stessa: da ciò che mangi, da ciò che guardi, dai programmi TV che segui, dai film che vedi o dalle mostre che visiti, da ciò che leggi, dalle conversazioni con i tuoi amici, dai viaggi che fai. Tutto ha un impatto su di te. E anche la politica che ti circonda ti influenza e condiziona le tue decisioni su come vuoi raccontare un soggetto.
ⓢ Salvo rari casi, la sua fotografia è sempre a colori, che importanza ha per lei il dato cromatico nei suoi lavori?
Ho iniziato a lavorare in bianco e nero quando studiavo fotografia a Monaco. Il colore era troppo difficile da sviluppare da solo, troppo complicato fare stampe a colori. Per me a quel tempo era più semplice stare in camera oscura e lavorare con il bianco e nero. C’era anche una certa tradizione che attribuiva al bianco e nero una maggiore dignità. Ma a un certo punto ho pensato: il mondo è a colori, e voglio vedere tutto (indicando attorno a sé): quel cappello blu, quel muro di un colore strano, o la luce che entra con una tonalità bianco-giallastra soffusa qui vicino a noi creando effetti imprevedibili. Voglio vedere l’arancione del mio piumino o quello dei volti delle persone.
ⓢ Ad oggi ha realizzato migliaia di autoritratti, ma se dovesse pensare ad un ritratto che possa riassumere la sua vita al momento, come sarebbe?
In questo momento farei una fotografia a mia moglie, altrimenti sarebbe una foto in bianco e nero della tomba di mio padre. Ecco, queste immagini riassumerebbero la complessità di quello che sono.