Torna in libreria Zona all’alba di una nuova guerra, e si conferma il libro che ha meglio descritto il cuore di tenebra dell’Europa.
Un soldato giovane e stanco, in fuga dal fronte di una guerra misteriosa, in un’epoca imprecisata, sporco e affamato, raggiunge dopo giorni di cammino solitario una catapecchia sulle montagne, appartenuta a suo padre e a suo nonno, e si nasconde lì cacciando uccelli. L’11 settembre 2001 un convegno di cinquanta matematici geniali si riunisce in una crociera sul fiume, vicino a Berlino, per celebrare la vita e le idee di Paul Heudeber, influentissimo collega morto qualche anno prima. Fra i partecipanti, la figlia Irina. Queste due trame in apparenza lontanissime fra loro dialogano nell’ultimo libro di Mathias Énard, Disertare, uscito qualche giorno fa per Edizioni E/O nella traduzione di Yasmina Melaouah. Disertare è un libro dove la guerra è sempre sullo sfondo, cicatrice e preoccupazione ricorrente dei protagonisti: le guerre del passato, del Novecento, la Guerra Fredda, e le possibili guerre di un futuro cupo. Énard, scrittore versatilissimo, cinquantatreenne, fra i più influenti della scena letteraria francese contemporanea, cambia stile e ambientazione come in ognuno dei suoi tredici libri precedenti, dove ha raccontato di cecchini, becchini, orientalisti, viandanti. Questa volta è la storia di un barbaro disertore e di un rigoroso matematico. Ne abbiamo parlato con lui al telefono.
ⓢ Buongiorno. Come sta? Da dove ci parla?
Molto bene, grazie. Sono a Roma. C’è una bella giornata, si sente che è appena iniziata la primavera. Ho solo qualche impegno con l’editore, tipo questa intervista, poi me ne andrò a passeggio. Vengo in Italia una o due volte all’anno, non spesso quanto vorrei, e cerco di godermela.
ⓢ Disertare è un libro con due trame che si intrecciano. Ha iniziato a scriverle contemporaneamente, o prima una e poi l’altra?
Ho iniziato con la storia di Irina e di suo padre. Ma subito dopo che ho iniziato a lavorarci, quando ero impegnato in tutta una serie di ricerche su temi matematici, la Russia ha invaso l’Ucraina. L’irruzione della guerra nell’Europa del ventunesimo secolo mi ha preoccupato e scioccato, e all’improvviso mi sembrava che mancasse qualcosa nella storia di Irina. Non volevo fosse troppo ancorata al passato, con un focus eccessivo sul Novecento. Volevo dare un altro punto di vista. All’improvviso mi è venuta l’idea di questo disertore, e di esplorare che cosa c’è a metà fra la guerra e la pace, nella terra di nessuno fra la violenza della guerra e la speranza di una pace possibile. Come si fa a venir fuori da un contesto brutale? Influenzato dall’attualità, sono riuscito a avere un’idea più completa del libro. È stata un’epifania diluita in due momenti diversi.
ⓢ È una storia di matematica, una scienza prevedibile, e di guerra, un evento imprevedibile.
La matematica è un modo di opporsi alle forze della storia, un rifugio dalle incertezze, un tentativo di scappare dalle instabilità e dall’imprevedibilità del nostro mondo, e anche di sfuggire alla violenza e all’oscurità della storia. È una scienza che tende alla purezza, che può esistere solo in un universo perfetto come quello della matematica. Il che, se ci pensi, è l’esatto opposto della guerra.
ⓢ Segue ancora con partecipazione le vicende relative alla guerra in Ucraina, o dopo più di tre anni inizia a essere saturo di informazioni e a smettere di preoccuparsi?
Ci penso tutti i giorni. Penso anche al Medio Oriente, e alla strana risposta dell’Unione Europea a questi conflitti. Mi sembra che stiamo vivendo in uno scenario molto simile, per certi versi, alla situazione del 1914, che poi ha portato alla Prima Guerra Mondiale. Sta nascendo questa convinzione che ci convenga, anche dal punto di vista economico, mettere soldi nell’industria bellica, delle armi, per salvarci la pelle.
ⓢ Lei non crede nel vecchio adagio “si vis pace, para bellum”?
Secondo me non ha nessun senso. È un periodo molto triste, c’è da scoraggiarsi vedendo la sofferenza, le vittime, la distruzione generata dalle guerre nel mondo. Quello che succede in Ucraina, in Sudan, in Palestina, in troppi altri posti. La nostra risposta, o almeno, quella delle istituzioni europee, non è cercare di salvare le persone, ma proteggerci con le pistole da un’ipotetica diffusione del conflitto. Un modo molto egoista, e anche piuttosto bislacco, di vedere il mondo.
ⓢ Che cos’è oggi l’Europa oggi, secondo lei? Pensa che i motivi che ci abbiano portato a formare l’Unione Europea stiano scolorendo?
Penso che l’Europa sia, in qualche modo, un sistema efficiente, che riesce a trovare moltissimi modi di unire le persone. Ma bisogna operare una distinzione, credo ci siano diversi livelli di Europa: ci sono innanzitutto i cittadini europei, che sono un modello positivo. Siamo tutti consapevoli di essere parte di una comunità, membri di un’entità più grande di noi. Vogliamo andare in vacanza in Italia, vogliamo andare a visitare Berlino o Parigi. Moltissimi di noi sono stati in Erasmus, l’integrazione è tangibile. Se analizziamo gli altri livelli, però, le cose sono un tantino diverse. Ci sono diverse diramazioni politiche, per esempio quello che sta succedendo in Ungheria o in Italia è scoraggiante, non che in Germania o in Francia le cose vadano meglio; la preparazione dei nostri politici è spesso desolante. Comunque, c’è un generale sentimento comune europeo, condiviso dai cittadini. Questo ce lo siamo guadagnato.
ⓢ Non è facile essere uno scrittore, in un mondo dove il ciclo delle informazioni è così veloce. Se lei potesse riscrivere il suo libro oggi, dopo aver visto che cosa sta facendo Donald Trump, anche nelle relazioni con Putin, cambierebbe qualcosa?
No, non credo che cambierei qualcosa. Non mi interessa l’inizio o la fine della guerra in Ucraina, mi interessavano di più le relazioni che creano e i percorsi che prendono i conflitti, le connessioni fra il presente e il passato, come la guerra cambia la nostra quotidianità, e la possibilità di immaginare un futuro di pace. Non pensavo a un tempo o a uno spazio preciso, mentre scrivevo Disertare. Avrei potuto ambientarlo dappertutto, in qualsiasi momento.
ⓢ Gli scenari montuosi, in Disertare, fanno venire gran voglia di una passeggiata in quota. Pensava a una montagna in particolare?
Avevo in mente moltissimi scenari. È un insieme di diverse ambientazioni, un panorama impossibile. Al livello del mare il paesaggio è vagamente mediterraneo, ma con influenze diverse: ci sono parti dove mi sono ispirato alla Siria costiera, parti all’entroterra siriano, c’è un po’ di Spagna, un po’ di Balcani. Ho preso un po’ di qua e un po’ di là.
ⓢ A proposito di Siria, lei ha vissuto a lungo in Paesi arabi. Torna ancora in Medio Oriente?
Sì, vado ogni tanto a Beirut, soprattutto.
ⓢ Lei è molto esperto di quell’area geografica. Ha una speranza che la situazione possa migliorare in un futuro prossimo?
Ci sono stati dei momenti di speranza, rivoluzionari, dove sembrava che le cose potessero andare meglio per il Medio Oriente, seguiti però da momenti di disillusione molto duri. Come è successo con le Primavere arabe, per esempio. Ci eravamo illusi che all’improvviso l’Egitto fosse diventato democratico, ed è poi finito sotto un regime sanguinario, più repressivo che mai. O per esempio il Libano: forse si può intravedere, con buona volontà, una speranza che il quadro politico possa migliorare ma la guerra è ancora alle porte, c’è una crisi economica, è molto difficile trovare un bilanciamento e nuovi poteri liberali dopo tutte le catastrofi che sono successe. Anche in Siria non se la passano meglio, c’è un desiderio di democrazia in conflitto con il rischio costante di una guerra civile, e un nemico molto potente che sta alimentando tutto questo per assicurarsi che la Siria non torni più a essere uno stato solido. È molto complicato. Non direi che, al momento, si possa essere ottimisti per il futuro.
ⓢ Insegna ancora arabo a Barcellona?
No, non più. Vivo principalmente a Barcellona, faccio base lì, ma non ho più una cattedra fissa. A volte mi invitano in giro nelle università, per un semestre o due. Adesso per esempio sono tornato per un anno a Berlino, a dieci anni dalla mia ultima residenza là da scrittore. È una città molto importante nei miei libri, sono felice di viverci ancora. È bello vedere com’è cambiata, mantenendo però la sua anima.
ⓢ In Disertare ci sono delle lettere d’amore dolcissime. Oggi, ahimè, non si scrivono più molte lettere d’amore. Pensa che questa sia una grave perdita?
Bè, però continuiamo a scrivere un sacco di lettere via mail!
ⓢ Non è la stessa cosa! Lei manda lettere d’amore via mail?
Potrei, potrei, perché no. Sì, scrivo a volte delle mail d’amore. Tu no? In effetti oggi i messaggi, le mail, sono più brevi di una volta. Comunque, le lettere d’amore non sono state il mio problema principale durante la lavorazione di Disertare: la sfida numero uno, per me, è stata mettermi nei panni di un venticinquenne innamorato.

ⓢ È stato così difficile?
Non direi proprio difficile, però ho dovuto ingegnarmi. Immaginare di essere un teenager o un giovane adulto profondamente innamorato non è una passeggiata, quando hai superato da un pezzo quell’età. Si tende a perdere un po’ di romanticismo.
ⓢ I soggetti dei suoi libri cambiano ad ogni nuova opera. Cosa pensa che abbiano in comune fra loro i suoi romanzi?
Probabilmente la sofferenza dell’essere umano di fronte alla violenza. La violenza della storia, della guerra. E anche la necessità di ricercare l’amore e la conoscenza.
ⓢ Si leggono libri sempre più pessimisti ultimamente, con scenari apocalittici. È possibile, secondo lei, scrivere oggi letteratura ottimista?
Forse dovremmo scrivere libri più ottimisti… non so. È un po’ il mood generale, oggi. Probabilmente siamo annoiati da storie che non contengono un futuro dark, per motivi politici e climatici, è il contesto in cui viviamo. Inoltre i nostri leader non sono particolarmente brillanti, in media. È normale che i libri riflettano i tempi che corrono.
ⓢ Come vede il futuro della letteratura?
Cambierà probabilmente la forma libro, non ci saranno più tomi di carta fra qualche anno. È la vita, le cose cambiano con il tempo e con il succedersi delle generazioni. Oggi ci sono nuove tecnologie, e bisogna farci i conti. Non c’è da aver paura. Tutti noi abbiamo i social media, li conosciamo e li usiamo di tanto in tanto. Qualcuno paga per prendersi una pausa di una settimana dal telefono. È molto difficile astrarsi completamente dalla tua epoca. Queste cose sono comunque in giro, che tu lo voglia o no. Bisogna prenderle in considerazione. I libri sopravvivranno, adattandosi.
ⓢ Se una guerra iniziasse oggi, lei dove si nasconderebbe per disertare? Ha un posticino segreto in montagna?
Dipende dalla guerra.
ⓢ Ok, mettiamo che non sia una guerra atomica…
Non lo so, penso che andrei in un villaggio remoto. Magari un villaggio nel sud della Francia, sulle montagne. Forse in Spagna… aspetta, la cosa migliore sarebbe nascondersi in un posto dove nessuno mi cercherebbe. Tipo nel mezzo della Bosnia-Erzegovina, sulle montagne in Bosnia. Mi sembra il posto più sicuro.
ⓢ Gira su internet una sua foto, che è stata definita una delle foto più francesi della storia, che la ritrae seduto al tavolo di un ristorante subito dopo aver vinto il premio Goncourt, assediato da giornalisti.
Certo, conosco bene quella foto. Che bella serata. Il premio Goncourt è sempre assegnato in questo ristorante, sempre nello stesso posto, vicino all’Opera, che si chiama Drouant.
ⓢ Si mangia bene?
Purtroppo il mio piatto, quello ritratto nella foto, era freddo, ho mangiato un bel po’ dopo l’impiattamento, perché dovevo rispondere alle domande di tutti i giornalisti che mi assillavano. Comunque, il cibo non era male.

In Italia per Serge, nuovo romanzo in uscita il 17 marzo, la scrittrice ci ha raccontato dell'umorismo che ha imparato in famiglia, degli scrittori italiani che le piacciono di più, di Milano, di Napoli e del perché nei suoi libri viene sempre citata Céline Dion.

Dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot e il flop di Freaks Out, il regista romano torna con un altro film, anche questo di genere, anche questo costosissimo, anche questo folle per gli standard del nostro cinema.