Nella grande mostra a Palazzo Reale, a 100 anni dalla Biennale di Venezia che ne sancì la fama, troviamo tutto il fascino e le inquietudini degli anni '20 e '30 del secolo scorso, che si sentono ancora oggi. Ne abbiamo parlato con la curatrice Giorgina Bertolino.
Nel 1998 l’artista francese Pierre Huyghe realizzò il video Sleeptalking (d’après “Sleep”, 1963 de Andy Warhol accompagné de la voix de John Giorno). Il pezzo di videoarte, come subito denunciato dal titolo, era la rivisitazione di Sleep, una delle primissime pellicole sperimentali di Andy Warhol che mostrava il volto e il corpo di un uomo in bianco e nero mentre dormiva per la durata di cinque ore e venti minuti. Si dice che, quando il film fu presentato il 17 gennaio 1964 da Jonas Mekas al Gramercy Arts Theater di New York, delle nove persone presenti, due abbandonarono la sala durante la prima ora.
Lo sguardo voyeuristico si era posato sull’allora ventisettenne John Giorno non tanto per suggerire una lettura intima o un tentativo di penetrare il mondo onirico dell’uomo; a Warhol interessava la sua mera presenza, la completa inattività del protagonista che si contrapponeva così apertamente con il cliché dell’action man dei film hollywoodiani e con quell’immaginario delle star che solo in apparenza era vicino all’artista, che almeno a quell’altezza di tempo faceva di tutto per sabotare le aspettative del pubblico, lavorando invece sulla dilatazione massima dei tempi morti, come il sonno, appunto.
A Labour of Love
Tornando a Sleeptalking (1998), Pierre Huyghe offriva invece un atto di restituzione: se in Sleep John Giorno era ridotto a un’immagine muta, congelata nel tempo, Huyghe 35 anni dopo lo riporta in vita, sovrapponendo il volto del poeta maturo con quello giovanile attraverso una raffinata tecnica di morphing digitale. Ma soprattutto, gli restituisce la voce: Giorno racconta la propria versione di Sleep, un’opera nata senza alcun interesse per i suoi sogni o per i suoi pensieri. Huyghe era invece interessato al risveglio del poeta, che finalmente può parlare e testimoniare di quell’evento artistico di cui fu protagonista. Potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura ideali per avvicinarsi alla mostra John Giorno. A Labour of Love, aperta in Triennale Milano (fino al 13 aprile) e curata da Nicola Ricciardi con Eleonora Molignani e il supporto di Giorno Poetry Systems e del brand MSGM, l’idea di ridare voce tramite documenti, pubblicazioni, filmati, opere e molto altro a uno degli autori più cruciali per intendere propriamente una delle più intense stagioni culturali che interessarono gli ambienti culturali underground della East Coast e la cui influenza continua, come un fiume carsico, a rimanifestarsi in tante e varie ramificazioni.
Giorno, che era nato nel 1936 a New York da genitori provenienti da piccoli comuni della provincia di Matera, ha rappresentato per tutti coloro che hanno frequentato l’arte degli ultimi cinquant’anni una presenza costante e soprattutto gioiosa, vitale nell’usare tutta l’estensione e il potenziale del linguaggio umano, dando (anche letteralmente) colore alla parola. Nell’intelligente allestimento curato da EX (Andrea Cassi, Michele Versaci) per la mostra in Triennale, tale eredità viene esplorata attraverso materiali d’archivio, documenti e filmati di performance ospitate nello spazio Cuore (Centro Studi, Archivi, Ricerca), che si presta perfettamente ad accogliere visitatori e anche semplici curiosi attirati dalle immagini e dal linguaggio multiforme di Giorno. Era del resto casuale, a volte, la modalità con cui John Giorno e altri amici e colleghi interagivano con il pubblico per le strade: c’è qualcosa di magico e per certi versi irrecuperabile nella levità e nella purezza che contraddistingueva la parte più performativa di quegli anni, dove possiamo vedere John Giorno su dei pattini a rotelle muoversi sui marciapiedi di Manhattan distribuendo copie dei suoi visual poems.
In un mondo che ancora non conosceva mezzi più impersonali per comunicare anonimamente con milioni di persone, la ‘fisicità’ della poesia di Giorno è ancora oggi una dimensione fondamentale per comprendere il suo lavoro. John Giorno, come abbiamo visto, aveva attraversato la Factory di Warhol, la Beat Generation di Allen Ginsberg e si era affiancato a un gigante come William Burroughs. Ma anche – e questo non è un episodio laterale – aveva partecipato agli Experiments in Art and Technology di Robert Rauschenberg, che conferirono all’arte di Giorno una dimensione, se possibile, ancora più strutturata sulla comprensione della parola come medium. In tal senso, il cuore dell’esposizione è dedicato a una delle sue più importanti intuizioni: Dial-A-Poem.

“Dial-a-Poem”, una delle opere di John Giorno esposte in Triennale (Foto di Gianluca Di Ioia © Triennale Milano)
Poesie al telefono
Nato nel 1968, il progetto prevedeva la possibilità di ascoltare poesie per telefono, componendo un numero a cui ogni giorno corrispondevano nuove voci. Un’idea semplice e insieme potentissima: svincolare la poesia dalla pagina, renderla un’esperienza diretta e popolare. Immaginiamoci per un attimo il brivido, allora, di alzare una cornetta di plastica e ascoltare poeti e scrittori che difficilmente oggi avrebbero lo stesso seguito e sarebbero ammantati da una simile aura da guru: Allen Ginsberg, William Burroughs, ma anche figure come John Cage, in un flusso continuo di parole e suoni. Quando il progetto fu esposto al MoMA nello stesso anno, non mancarono le controversie: alcuni poems furono ritenuti troppo espliciti e il progetto subì a più riprese sabotaggi e censure. Sì, perché i temi e le suggestioni spaziavano in tutto lo spettro dell’espressione umana. In anni caldissimi dal punto di vista politico e culturale, molti visitatori borghesi del MoMA ancora non erano pronti a confrontarsi con sesso, dipendenze, posizioni pacifiste, forme di spiritualità alternative o, più in generale, con tutto ciò che si stava costituendo come cultura queer.
In Triennale, i visitatori possono rivivere Dial-A-Poem sollevando la cornetta di un telefono e ascoltando direttamente la voce di Giorno e dei suoi compagni di viaggio. È un’esperienza che restituisce la dimensione più autentica della sua poesia: un’arte che esiste nella voce, nel suono, nella trasmissione diretta da un corpo all’altro. Ma c’è molto di più se si ha il tempo di curiosare, aprire a caso “l’atlante-giorno” nei circa cento documenti provenienti dagli archivi di Giorno Poetry Systems che tratteggiano la figura di un autore che si era abbeverato tanto delle avanguardie newyorkesi quanto del buddismo tibetano. Praticante della tradizione Nyingmapa per oltre trent’anni, Giorno ha ospitato grandi lama tibetani nel suo loft al 222 di Bowery, trasformando la sua casa in un luogo di scambio spirituale e artistico. Corrispondenze con artisti come Jasper Johns e Keith Haring, progetti condivisi con Vito ‘Hannibal’ Acconci, sperimentazioni musicali con Laurie Anderson, Patti Smith, Philip Glass e Michael Stipe.

Il “murale” con le frasi di John Giorno, esposto lungo lo Scalone d’Onore di Triennale (foto di Gianluca Di Ioia © Triennale Milano)
Le parole sono importanti
Giorno non si è limitato alla parola scritta o recitata, negli anni ha esplorato le possibilità della poesia visiva, dando forma a una serie di dipinti e serigrafie che trasformano il testo in immagine. Nello Scalone d’Onore della Triennale, i visitatori sono accolti da un monumentale murale con alcune delle sue frasi più celebri, mentre le tele della serie Perfect Flowers amplificano il suo linguaggio in un’esplosione di colore e font che urlano il proprio messaggio, come in altri esempi (qui non esposti) che possono essere sfacciati e profondamente intimi: I WANT TO CUM IN YOUR HEART. Oppure giocando ironicamente sul filo sottile tra poetico e patetico: PREFER TO CRYING IN A LIMO TO LAUGHING ON A BUS, frasi che decontestualizzate dal loro supporto e dal display museale oggi potremmo trovare sull’account social di qualche chica mala.
A distinguere però le parole di Giorno dal flusso ininterrotto di quelle vomitate sui social, è stata la partecipazione attiva alla realtà, anche le più difficili come la pandemia di Aids che sterminò un’intera generazione di creativi (oltre che persone comuni). Il poeta si impegnò radicalmente per denunciare il pericolosissimi silenzio di media e istituzioni, ancora una volta dimostrando che la poesia può vivere ovunque: in un telefono, su una parete, in un disco, in un corpo che si muove e parla, in un volantino di sensibilizzazione sull’Hiv.
La mostra non è solo un omaggio a Giorno, ma un’occasione per riflettere sul potere della parola e della collaborazione umana; Giorno ha abbattuto confini tra generi e discipline, creando ponti tra poesia, performance, tecnologia e attivismo. Con Sleeptalking, Pierre Huyghe ci aveva ricordato che dietro l’immagine di Sleep c’era un uomo con una voce, un pensiero. A Labour of Love, ci invita ad ascoltarlo ancora una volta, e a riscoprirne la straordinaria attualità.

Dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot e il flop di Freaks Out, il regista romano torna con un altro film, anche questo di genere, anche questo costosissimo, anche questo folle per gli standard del nostro cinema.