Lo storico e curatore ha portato a Milano tre performance che mettono in discussione il senso della moda di oggi.
Lo scorso 20 e 21 marzo si è conclusa l’edizione 2025 di ITS Contest, che ogni anno riunisce a Trieste i migliori talenti selezionati dalle più importanti scuole di fashion design al mondo. Ai finalisti ITS offre una residenza creativa, una borsa di studio, esperienze su misura e la partecipazione a una mostra dedicata nel primo museo di moda contemporanea in Italia, ITS Arcademy – Museum of Art in Fashion, che su Rivista Studio vi avevamo raccontato alla sua inaugurazione nel maggio del 2023, e che quest’anno inaugura ben due mostre. I finalisti di quest’edizione erano dieci: Cindy Zhaohan Li (Cina), Gabrielle Szwarcenberg (Belgio), Macy Grimshaw (Francia, che sarà presto protagonista di una mostra presso Fondazione Sozzani a Milano), Maximilian Raynor (Regno Unito), Mijoda Dajomi (Germania), Naya El Ahdab (Francia, la cui collezione era una delle più riuscite), Patrick Taylor (Regno Unito), Qianhan Liu (Cina), Yifan Yu (Cina), Zhuen Cai (Cina).
Per scelta consapevole, tutti sono stati premiati e tutti hanno partecipato alla mostra Borderless, che inaugura il prossimo 27 marzo. Una menzione speciale è andata a Maximilian Raynor, che ha ricevuto l’ITS Jury’s Rewarding Honours, il premio della giuria internazionale composta da designer, creativi ed esperti del settore. L’ITS Fashion Film Award è stato invece assegnato a Meret Olympia Salome Baer. Nel 2024 avevamo intervistato il curatore Olivier Saillard, che a ITS è di casa e che quest’anno, insieme al filosofo e autore Emanuele Coccia, ha curato Fashionlands – Clothes Beyond Borders. Saillard e Coccia hanno infatti fatto dialogare un progetto fotografico, realizzato ad hoc dal fotografo Gabriele Rosati e dedicato agli essenziali del guardaroba degli umani (la T-shirt, la giacca, i jeans), con i manufatti presenti nell’archivio del museo, creando una correlazione tra gli elementi più “basici” che ci accompagnano nella quotidianità e la loro versione esplosa, ovvero quella immaginata dai creativi che negli anni sono passati da ITS. Qualora aveste bisogno di un motivo in più per visitare Trieste, quella che segue è una conversazione con Barbara Franchin, che ITS lo ha lanciato nel 2002 e che da allora si occupa di custodire e amplificare la creatività di tutti coloro che dalla sua città passano, lasciandoci qualcosa di sé.

Fashionlands – Clothes Beyond Borders
ⓢ Ciao Barbara, durante la premiazione mi ha colpito il manifesto scritto dai finalisti che voleva porre l’attenzione su come quello dell’ufficio stile sia un lavoro collettivo e non l’opera di un genio solitario, come per lungo tempo è stato raccontato. Mi sembra indicativo dell’attitudine di chi si affaccia oggi a questo lavoro, in un momento di crisi dell’industria senza precedenti. Solo qualche anno fa, i “giovani designer” sono stati una sorta di tendenza, con un proliferare di premi e manifestazioni a loro dedicate, tutte cose che oggi sono sparite. Cos’è successo?
Probabilmente per molti nell’industria i giovani designer erano una sorta di divertissement, c’è stato un momento in cui andavano molto di moda. Però io non dimenticherò mai la schiera di designer, giornalisti e addetti ai lavori che quando abbiamo lanciato ITS, nel 2002, mi chiedevano perché mi occupassi di queste “robe scolastiche”. A me sembrava assurdo non guardare al lavoro delle scuole, perché è da quel lavoro che, anni dopo, vengono fuori i fatturati dei brand. I giovani designer sono stati sottovalutati per lungo tempo oppure sono stati “usati” in alcuni momenti in cui c’era la percezione che bisognasse occuparsene per sentirsi al passo. Noi abbiamo creato qui a Trieste un avamposto, in un luogo che non è esattamente centrale, soprattutto se si guarda all’Italia e non all’Europa. Nel tempo, abbiamo dimostrato che si poteva parlare di creatività anche in una piccola cittadina e non è un caso che poi anche i grandi gruppi abbiano lanciato iniziative in questo campo. Abbiamo fatto grandi sacrifici, nonostante in tanti ci abbiano detto che non contavamo nulla, ma non siamo noi a contare qualcosa, a contare sono le storie che raccontiamo.
ⓢ Hai visto passare tanti giovani qui a Trieste e mi chiedevo se i consigli che dai loro siano in qualche modo cambiati nel tempo. Di cosa ha bisogno un designer oggi, secondo te, per emergere in un momento in cui l’industria della moda è in una fase così difficile?
In realtà i consigli che tendo a dare sono rimasti in parte costanti nel tempo, perché ho sempre consigliato loro di non aspirare necessariamente alle passerelle di Milano, Parigi, Londra e così via. Cerco di discutere con loro delle vite dei designer, proprio della vita che fanno quotidianamente, e di spingerli a immaginarsi non solo nella dimensione del direttore creativo, perché quella è una strada sicuramente ben remunerata ma anche molto difficile, dove il tempo personale non esiste. Cerco di spingerli a chiedersi che tipo di vita vogliono vivere. Perché se si sentono pronti per quella, di vita, allora va bene, devono andare per la loro strada. Alcuni di loro possono farcela, ma è anche importante che capiscano che “pensare in piccolo” non è un ripiego. Perché non pensare di aprire il propio laboratorio? Perché non mantenere integra la propria identità e avere a che fare direttamente con i propri clienti? Perché non provare a costruire una dimensione in cui poter controllare tutto il processo e non essere “mangiati” da quella vita? Mi sembra che oggi i ragazzi siano più ricettivi verso questo tipo di discorso, quindici o vent’anni fa non era così semplice. Oggi capiscono, oggi ascoltano.
ⓢ Forse perché hanno visto cos’è diventata quest’industria? E l’impatto negativo che molto spesso ha sulla salute mentale di chi ci lavora?
Sì, è probabile. Quello che ho notato è che c’è stato il momento in cui tutti volevano essere uno stilista star, come John Galliano. Poi c’è stato il momento del direttore creativo [come Demna o Alessandro Michele, nda]. Oggi invece tendono a definirsi “artisti”, forse anche per distaccarsi in maniera provocatoria da quello che la moda è diventata. Magari sentono che le loro radici stanno più nell’arte rispetto al commercio, anche in maniera ingenua perché sono giovani, ma di sicuro sono consapevoli di quanto la moda sia predatoria e dello sfruttamento e della sofferenza che sono attaccate alle sue pratiche. Oggi capiscono che possono lavorare su scala ridotta, aprire una propria linea nel “vecchio” modo invece di andare a lavorare per una brand affermato e farsi mangiare o sottopagare. Ma è giusto che facciano il loro percorso.
ⓢ Parlando con i finalisti in questi giorni, mi hanno raccontato come per loro essere qui a Trieste sia stato un momento quasi da vacanza studio, in cui hanno conosciuto persone, visto luoghi, scambiato idee. Mi sembra già un grandissimo successo e uno spazio che è più che mai necessario all’interno di questo sistema, soprattutto in questo momento storico.
Ci proviamo a creare questo spazio, perché ci crediamo. Siamo anche molto contenti di quello che succede ai visitatori di ITS Arcademy, a tutte le persone che entrano in questo museo per vedere le mostre che proponiamo e spesso si tratta di mostre difficili, diciamo così, non proprio accessibili. Eppure le persone le apprezzano comunque, e qui ci sarebbe un discorso da fare sul perché riteniamo che la maggioranza delle persone non possa essere interessata alla complessità di un tema, ma quello che abbiamo notato è che chi viene a visitarci si ritrova nelle riflessioni su gesti e pensieri che accompagnano il vestirsi, perché vestirsi è qualcosa che ci riguarda tutti. Solo qualche anno fa mi si diceva che mi dovevo trovare un altro mestiere, perché la moda era morta. E sai, a dirti la verità probabilmente è vero, nel senso che si venderanno sempre meno vestiti, perché la maggior parte delle persone preferisce investire i propri soldi in altro. Magari le cose cambieranno quando si ritornerà a produrre con buoni materiali, pagando le persone quello che è giusto, quando insomma cambierà davvero tutta la filiera, dalla produzione fino al negozio, e saranno eliminate le situazioni di schiavitù che esistono oggi. Se sei pro Palestina alcuni brand non ti fanno più lavorare, ad esempio. Qui a ITS cerchiamo di parlare di creatività, che è qualcosa che va oltre le logiche di profitto.
ⓢ Sono assolutamente d’accordo. L’ultima cosa di cui vorrei parlare con te è l’idea di archivio, perché mi sembra che qui si parli di archivio in modo diametralmente opposto a come l’archivio viene trattato in molti brand, dove la storia è ricostruita in virtù di quelle che sono le esigenze commerciali del momento. Cosa significa l’archivio per ITS e cosa vorreste farci che ancora non avete fatto?
Ci sarebbero tante cose da dire rispetto all’archivio, ma innanzitutto stiamo cercando un altro spazio perché ne abbiamo bisogno. In realtà eravamo stretti sin dal principio ma dovevamo iniziare da qualche parte. Poi vorrei accettare tutte le donazioni che ci stanno arrivando, mi ha scritto recentemente un ex finalista che vuole regalarci la sua prima collezione e gli ho detto che noi l’avremmo conservata qui, perché magari tra un anno cambia idea e la rivuole indietro, o ne rivuole indietro qualche pezzo. Ma noi intanto la teniamo qui, a riposo. Uno spazio più grande ci servirebbe proprio per questo: accettare più donazioni e quindi avere molto più materiale sui cui lavorare. Un’altra cosa che mi piacerebbe fare è poi valorizzare la storia della moda di questa zona, che solo un centinaio di anni fa era fiorente, rigogliosa. Questo, tra le altre cose, è stato il luogo di vacanza degli austriaci che andavano ad assistere alle corse dei cavalli ed è sempre stato luogo di scambio culturale. Esistono fotografie di una bellezza unica, che riguardano soprattuto la modisteria, perché ci sono state figure che da Trieste si spostarono a Vienna, diventando famose, riconosciute. Mi piacerebbe avviare sempre più conversazioni con l’esterno, raccontando storie che finora non sono state raccontate.

Reggiseni esposti, stole di pelliccia, cotonature sfatte e un cast che unisce personalità le quali, ognuna in maniera diversa, raccontano una storia sul presente: nell’idea di donna di Miuccia Prada ci sono tante cose, anche gli uomini.