Severance è diventata un cult senza nemmeno provarci

Con la seconda stagione la serie di Ben Stiller si conferma diversa da tutte le altre, e questa è la sua forza.

18 Marzo 2025

Quale sia l’angolo di Internet dove avete scavato la vostra tana, Severance è la serie del momento in quello spazio. Se siete abitudinari di Reddit avrete probabilmente speso ore a leggere le teorie più arzigogolate su Cold Harbour e sugli obiettivi a lungo termine della famiglia Kier. Se spezzate la noia dei turni lavorativi spulciando bacheche su Pinterest, ne avrete intercettate almeno un paio ricolme di foto di uffici degli anni ’70 e paesaggi rocciosi innevati del Minnewaska. Se ogni pausa bagno è dedicata al doom scrolling su TikTok o Instagram, magari vi siete imbattuti nelle stesse animazioni di Oliver Latta che anni fa spinsero Ben Stiller a contattarlo e a chiedergli di realizzare la sigla di apertura di una serie esplosa davvero solo alla sua seconda stagione.

Ovvero solo quando Apple TV+ ha cominciato a metterci quel minimo d’impegno per renderla l’argomento del momento online, almeno per un paio d’ore. È bastata una singola, ottima idea di marketing. I protagonisti della prima stagione, già incensata dalla critica ma rimasta fino ad allora appannaggio di pochi spettatori attenti, sono stati piazzati dentro un cubo di vetro contenente la replica della loro postazione di lavoro. L’installazione dentro al Grand Central Terminal di New York “Inside the Box” è bastata a far rimbalzare il video della performance ai quattro angoli dell’Internet, a partire ovviamente da Twitter. Proprio alla vigilia della messa in onda della seconda stagione. I passanti, i media e gli influencer avvisati dell’evento hanno estratto i telefoni e condiviso video in verticale degli attori calati nel loro ruolo alle prese con il lavoro “importante e misterioso” sui terminali funzionanti della Lumon, tra teatro e performance artistica. Se ci si avvicinava per chiedere informazioni alla sicurezza, si riceveva una risposta diplomatica in puro linguaggio corporate e un fascicolo illustrativo della Lumon. I fortunati passanti l’hanno vista dal vivo, noi l’abbiamo vista sui nostri schermi.

L’origine della Severance mania

Il resto è storia del 2025 seriale. Dopo tanto penare, Apple TV+ è finalmente riuscita a piazzare di nuovo un suo show nella classifica dei più visti della settimana stillata dalla Nielsen, da cui latitava dai tempi della Ted Lasso mania, pur avendo in catalogo show pazzeschi. Insomma, l’esplosione di popolarità improvvisa di Severance ci dice tantissimo della nostra pigrizia e malleabilità. Come i fantocci del quarto episodio, la critica specializzata e i media ci indicavano da anni la direzione verso una serie pazzesca, ma l’abbiamo ignorata rimanendo accoccolati nella proposta dell’algoritmo finché non sono arrivati quel video virale e la pressione sociale di capire le battute dei comici di TikTok sulle caprette. La Severance mania però ci dice pochissimo di come Severance abbia creato la sua coolness, ancor prima che ne percepissimo l’esistenza.

Le ipotesi in merito sono potenzialmente innumerevoli e tutte da esplorare, come gli uffici vuoti del piano interrato alla sede centrale della Lumon. Che, tra parentesi, si può visitare anche senza essere sul libro paga della famiglia Kier. Partiamo allora da qui: dalle architetture industriali anni ‘60 immaginate da Eero Saarinen, o magari dalla casa tutta legni caldi e spazi rilassanti in cui Ricken scrive The You You Are, disegnata da Kaneji Domoto. O dai complessi di casette tutte uguali in cui Mark vive una vita “fuori” non meno standardizzata e deprimente del suo alter ego d’ufficio, scovati dalla produzione a Nyack, a una trentina di chilometri dalla Grande Mela.

Dall’architettura alla cancelleria

Si potrebbero scrivere saggi sulle scelte architettoniche alla base della serie. Anzi, lo si sta facendo, così come si sta scrivendo di quasi ogni aspetto di questa serie, dal macro al microscopico. La cancelleria d’ufficio per esempio: un assortimento standardizzato di oggetti potenzialmente privo di allure nella sua deprimente funzionalità trasformato in oggetto di culto da replicare e rivendere su Etsy. Chissà che ci affascina: forse quel gusto retrò e analogico che talvolta è e studiatamente infantile nel trattare i suoi dipendenti (gli intrappoladita premio di Dylan), alle volte ridondante in uno spazio così scevro di personalizzazione. A chi ha disegnato le confezioni in cartoncino contenenti gli snack nel distributore o i pass per attivare gli ascensori dico solo: missione compiuta. Ti viene davvero voglia di avere una tazza azzurra con sopra il logo della corporazione settaria che potrebbe aver ucciso per sempre uno dei personaggi più incredibili visti su schermo negli ultimi anni. Lode a Kier, se renderà disponibile la suddetta mug o almeno quella commemorativa con su la faccia di Irving.

Tra l’atro quando Irving è stato “congedato permanentemente” e le scrivanie del reparto MacroData Refinement da quattro sono diventate tre, Severance ha messo a segno una delle intuizioni visive più incredibili della sua seconda, strepitosa stagione. Incredibile in tutto il suo orrore, certo, ma anche nell’essere prova di quanto la serie sia pianificata nei minimi dettagli. Le scrivanie modulari non solo danno un’identità visiva distintiva alla serie, non solo con i loro divisori a scorrimento regalano alla regia infinite soluzioni per narrare le relazioni tra colleghi. Sono così funzionali, così ben progettate, così belle nel loro diabolico rimandare a quanto siano rimpiazzabili e riorganizzabili i loro occupanti che appunto, da prop con cui gli attori interagiscono diventano un potentissimo elemento narrativo. Il dettaglio più diabolico? Il tappetino posto sotto la sedia che evita di consumare la moquette verde. Perché domani MacroData Refinement potrebbe tornare a essere una delle tante stanze vuote, immacolate: a quattro a tre a zero scrivanie.

Ben Stiller, il talent scout

Severance è probabilmente la serie più cool oggi perché non ha tentato di esserlo alla sua nascita. Non è stata pianificata a tavolino per performare sulla base di calcoli algoritmici che dicono ai servizi di streaming che scene rivediamo, dove indugiano e se mettiamo o no in pausa durante una binge per andar a fare pipì. Se ci importa abbastanza da pigiare pausa sul telecomando. Non ha alla base un world building, un mood o un’estetica calcolata a monte per sedurci o almeno scatenare qualche video spiegone online, mettendo la storia in secondo piano, dandole un colpetto di fanservice quando è un po’ tremolante. Questa è piuttosto la nostra reazione standard, di default, a quanto ci imbattiamo in qualcosa di così ben fatto.

È diversa da gran parte di quello che vediamo sui nostri schermi oggi perché – circostanza rarissima – il servizio di streaming che la ospita non ne è direttamente responsabile. A curarla è uno degli ultimi studi di produzione televisiva indipendenti rimasti, la The Fifth Season, che a sua volta ha dato fiducia a un Ben Stiller come regista e scopritore di talenti. Uno che chiaramente usa più proficuamente della media il suo tempo dedicato al cazzeggio online. Il suo doom scrolling è alla base di una opening epocale, capace persino di bruciare sul tempo una certa estetica perturbante propria delle creazioni artistiche dell’intelligenza artificiale. Il suo rovistare nei copioni e nei pitch che nessuno al suo livello degna d’attenzione – quelli firmati da chi non ha nemmeno un credit su IMDb in quanto assoluto esordiente – gli ha fatto notare l’intuizione geniale sulla scissione di Dan Erickson, diventato show runner della serie senza nessuna esperienza pregressa.

Lo stato dell’arte televisiva

La produzione di questa seconda stagione costruisce sulle solidissime fondamenta della prima ed  è semplicemente faraonica. I budget erano già importanti, ma sono aumentati e, per giunta, sono stati ampiamente sforati (si dice di decine di milioni di dollari). Questo perché a Stiller e a Erickson è stato concesso il lusso di provare un’idea e poi di metterla da parte, senza contare l’impasse dello sciopero degli sceneggiatori e le difficoltà tecniche che comportano episodi totalmente in esterna come La Valle del Dolore e Dolce Vetriolo. Provare e riprovare, fino a trovare la giusta direzione per la sottile inquietudine intrappolata in ogni episodio della serie.

Severance è così cool perché non aspira a esserlo. Il suo traguardo è essere allo stato dell’arte seriale in ogni singolo comparto, facendo scelte altrove impossibili. Ha i design e le grafiche più elettrizzanti visti in TV da anni, ma anche uno dei cast che punta meno alla componente estetica, rispolverando talenti enormi ma che una serialità fatta di corpi da fotoromanzo relega ai margini.

Quale altra serie spenderebbe la sua storia più romantica – un amore così perfetto, così dettato dal destino da funzionare dentro e fuori la scissione – usando come protagonisti i volti rugosi ed emozionati di Christopher Walken e John Turturro? Quale serie metterebbe pepe nella loro dinamica calando l’asso di John Noble (un gigante della recitazione che non si vedeva in un ruolo così esaltante dai tempi di Fringe) fino a creare un triangolo in cui da chi è innamorato di chi si scivola nel chi è dalla parte della Lumon e chi no, includendo anche Dio nel discorso? Il tutto nel corso di un’unica, ambiguissima cena a base di arrosto glassato?

Un magnifico disagio

Nessuno, è la risposta in breve. Severance è la serie più cool del momento perché quale che sia il punto di vista da cui la si approccia, ci si trova sempre davanti uno sforzo narrativo, produttivo e visivo immane per cavar fuori il miglior risultato possibile: talvolta il più bello, altre il più deprimente o disturbante. Sempre il più efficace. Sin dalle sua fondamenta, cioè la creazione di un world building e un’estetica tanto ben realizzate da rendere invitante e desiderabile il luogo da cui tentiamo di fuggire quando accendiamo la TV: il posto di lavoro. Non lo fa nemmeno prendendo la scorciatoia di un’estetica accattivante, fichetta, da tech company dal design minimalista e dalle linee sinuose. No. La palette cromatica ristretta, i corridoi di un bianco più abbagliante della neve del mondo fuori, le grafiche squadrettate e le musichette 8-bit dei filmati informativi sono pianificati e realizzati per metterci sottilmente a disagio, per farci intravedere la manipolazione e la spersonalizzazione della Lumon e tutta l’impotenza dei personaggi di fronte alla stessa.

Alla lunga quest’estetica della tensione e della sottile minaccia continua diventa persino desiderabile, tanto da farci venir voglia di vedere un video essay a riguardo su YouTube, per capire. O almeno comprare un quaderno con il logo della Lumon da piazzare sulla scrivania al lavoro. Dove le tabelle Excel e le presentazioni PowerPoint sono apparentemente senza senso almeno quanto i numeri raggruppabili della Lumon ma, ahimè, con un’estetica molto più trascurata.

Scissione, o del perché è giusto odiare il proprio lavoro

L'acclamata serie di Apple TV+, diretta da Ben Stiller, mescola thriller, fantascienza, satira sociale, dark comedy per raccontare esattamente il punto in cui ci troviamo.

La sede della Lumon Industries di Severance esiste davvero e si può visitare

Si trova a Holmdel, in New Jersey, ed è un edificio con una storia parecchio interessante.

Christopher Walken è diventato il profeta della disconnessione

Related ↓
Come hanno fatto i registi di Adolescence a girare tutta la serie in piano sequenza

Tutti vogliono sapere come sia stato possibile riuscire a non interrompere mai le riprese di ogni episodio.

Il prossimo progetto di Sean Baker è un cofanetto Blu-ray con i film di Ornella Muti

Lo ha rivelato su Instagram Naike Rivelli, figlia di Muti e ora anche amica di Baker.

I mondi di Joan Thiele

Il suo nuovo album Joanita, il debutto a Sanremo, il tour appena annunciato, l’amore per le colonne sonore, la bellezza di essere se stessi: incontro con la cantautrice più amata dell’indie italiano.

Ad aprile uscirà un Meridiano Mondadori dedicato a Philip K. Dick

Saranno due volumi, raccoglieranno 11 romanzi e usciranno l'1 aprile.

Non c’è posto per l’amore, qui racconta l’Ucraina nel tritacarne della storia

Il romanzo di Yaroslav Trofimov è un grande racconto su tutta la violenza che il Paese ha attraversato, dall'Urss al Reich.

Hanya Yanagihara ha detto che nessuno vuole darle i soldi per fare la serie di Una vita come tante

L'ha rivelato in un post in cui annuncia un'edizione speciale del romanzo per il 10° anniversario.