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Ci sono voluti 100 anni ma finalmente Irène Nemirovsky è entrata nel canone
Adelphi ha recentemente pubblicato Il carnevale di Nizza, una raccolta di racconti giovanili in cui c'era già tutto quello che ci piace leggere oggi: ragazze strafottenti, allegre, infelici e arrabbiate.

«Voglio interessare la gente fra cent’anni», scriveva nelle sue annotazioni Irène Nemirovsky, nata a Kiev Irina Nemorovskaja, e mai naturalizzata francese a causa delle sue origini ebraiche. Lei, di anni, ne aveva poco più di venti, ma era già acclamata dalla critica e i paparazzi la fotografavano sulle spiagge della Costa Azzurra. Risalgono a quel periodo d’oro, quando aveva tra i 20 e i 30 anni, i ventuno racconti della raccolta Il carnevale di Nizza, appena uscita per Adelphi, pieni di adolescenti che odiano le madri, ma anche di osservazioni sulla vita amara di prostitute, mariti infedeli, donne invecchiate nel rancore: tutte cose che una ventenne di ottima famiglia non dovrebbe conoscere, e che Irène, nello specifico, non conoscerà mai, morendo ad Auschwitz neanche quarantenne.
Solo a partire dal 2004, il suo desiderio giovanile di essere ricordata si è avverato. Oggi, Nemirovsky è “di moda” come lo era stata solo a vent’anni. Anzi – mi racconta la curatrice e traduttrice Teresa Lussone – si potrebbe dire che è proprio entrata nel canone, considerando che il suo cattivissimo romanzo Il ballo (protagonista una quattordicenne che detesta la madre e le vuole distruggere la festa) è proposto perfino nei manuali di letteratura del liceo italiano.
Prima ignorata, poi dimenticata, infine ritrovata
Nonostante l’ambizione di attraversare il tempo, Némirovsky passò gli ultimi dieci anni della sua vita a lottare per la pubblicazione in quanto ebrea e, nei sessant’anni dopo la sua morte, è stata rimossa e dimenticata per il problema opposto: il sospetto da parte di certa critica di antisemitismo, perché si era convertita al cattolicesimo, e per via del ritratto crudele che tratteggia dei patriarchi ebrei della sua famiglia.
Una delle due figlie, quand’era ancora in vita, confidò a Lussone: «Io da mia madre, anche da morta, mi aspetto sempre delle sorprese!». Si riferiva alle plurime scoperte che, dopo anni di silenzio, portarono alla luce continue “novità” su questa donna del 1903 che desiderava viaggiare nel futuro: innanzitutto, i due volumi autobiografici che N. aveva ficcato in una valigia prima della deportazione, ordinando alla balia: «Vendili solo se non ti bastano pellicce e gioielli, perché ci vorrei lavorare ancora» (non le fu possibile). I due tomi rimasti incompleti, che fotografavano le prime reazioni umane davanti alla Sho’ah, furono ripescati e trascritti dalla figlia già negli anni Ottanta, ma solo nei primi del Duemila – con l’istituzione della Giornata della Memoria – trovarono l’interesse degli editori, uscendo col titolo di Suite francese. In seguito, Lussone, confrontando le versioni esistenti del manoscritto, chiese alla figlia di poter pubblicare la più recente delle due, dove cambiavano intere vicende dei personaggi – ad esempio quella del prete che l’aveva convertita – perché nel frattempo Irène aveva ricevuto notizie di queste persone. La figlia era sempre molto aperta verso il fantasma della mamma, e in seguito il libro uscì, in Italia col titolo Tempesta in giugno.

Ragazze tristi, allegre, arrabbiate, strafottenti
I racconti del Carnevale di Nizza, tutti inediti per Adelphi, sono stati scelti dalla curatrice senza alcun criterio tematico: solo in quanto lavori giovanili. Il libro racchiude una varietà di temi e di toni impressionante, considerata l’età dell’autrice. Si apre con le commedie satiriche di Nonoche e Louloute, due diciottenni stupidine alla ricerca dell’uomo giusto dalla chiaroveggente, che chiede il sovrapprezzo di un franco e mezzo per pagare l’uovo nel cui albume sbattuto leggere la fedeltà del maschio in questione. Si continua con le due “pollastre” in villeggiatura, al Louvre, al cinematografo, sempre nella speranza di accalappiare uno ricco e farsi comprare gioielli vistosi (vorremmo dire che almeno questa è roba superata, ma se pensiamo alle donne dei trapper, cogliamo subito l’eternità del tema).
Le Rive felici inizia con uno dei topoi preferiti di Nemirovsky: il veglione di fine anno, un gruppo di quindicenni strafottenti al ballo, con la schiena esile e dorata, il volto algido, spigoloso, beffardo dalle gote infiammate per la danza. E la mamma attempata che le guarda col viso affaticato e segnato dalla couperose: «Tutte uguali… il belletto, i gioielli da donna» (proprio come ora: il blush, lo zaino North Face). «Torni a casa, cara?» «No, mamma, proseguiamo la serata da Marie-Claude». «Ma sono le due di notte, Cri Cri». «Lo so, mamma. Non ho più sette anni» (il tutto avrebbe potuto avvenire via Whatsapp).
I toni si fanno più e più amari. Entriamo e usciamo da bar coi divanetti in pelle, dove le tende sono calate e le luci accese anche nei giorni estivi, e una giovane alcolizzata infelice legge roba “trash” buttando giù whisky invecchiati. Viene fuori che le Rive felici sono quelle dove non arriva mai la tempesta: le vite festose e facili delle ragazzine alto-borghesi che nei bar scintillano e fanno l’invidia delle vecchie prostitute. Una vecchia coppia litiga in modo meschino vestendosi per il cenone di Natale, mentre la tata bussa docilmente alla porta tra le urla e ricorda loro dei bambini. «Metteteli a letto!», sbottano i due. «Ma vi aspettano da ore per appendere le calze al camino…». Un’altra tata nostalgica della Russia attende invano per anni una nevicata su Parigi che non arriverà mai.
Chiedo a Teresa Lussone, che ha lavorato due anni sul libro, qual è il suo racconto preferito. Tiene particolarmente ai Giardini di Tauride, testo incompleto pubblicato in appendice, una sorta di block-notes dove l’autrice prende appunti sulla sua scrittura, e, tra le altre cose, annota: «Non appena trovo una madre odiosa, acida, detestabile, sto subito meglio!» (Irène, dopo la fuga dalla Russia, era stata trattata freddamente dalla madre e affidata in tutto e per tutto alle cure della balia.). L’amante della madre è una figura fondamentale nel suo immaginario familiare, ma a proposito del racconto, dove occorre ricercare un’eccezionale densità narrativa, N. scrive: «Forse, in un libro breve, un amante sarebbe di troppo? Sì, credo di sì». Regola d’oro mai enunciata da Carver o da Checov: in un racconto, non c’è tempo per gli amanti delle madri. Nemmeno la vita di Irène è stata abbastanza lunga per finire di scrivere tutto quel che c’era da scrivere. Eppure, lei il suo poco tempo lo sfruttò benissimo.