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Adesso che è tornato nei cinema, dovremmo tutti vedere No Other Land

Il film mostra la stremante quotidianità dei palestinesi in Cisgiordania contro la violenza dei coloni. Ha vinto l'Oscar ed è un documento di rabbia con un filo di speranza.

di Livia Chiriatti

Un'immagine di "No Other Land", documentario vincitore del premio Oscar

Quando sono andata a vedere No Other Land, fino a diversi minuti dopo la fine dei titoli di coda, persino respirare sembrava inopportuno. Eravamo tutti sopraffatti. Forse avevamo visto il film dell’anno, e in effetti lo è stato: ha vinto domenica 2 marzo l’Oscar come Migliore documentario e, grazie a questa vittoria, si è guadagnato una nuova distribuzione anche in Italia, dal 6 marzo, grazie a Wanted Cinema. No Other Land, per chi vivesse su un altro pianeta, è il film del palestinese Basel Adra e dell’israeliano Yuval Abraham che racconta la resistenza pacifica e instancabile ai soprusi dell’occupazione israeliana della comunità di Masafer Yatta, un gruppo di villaggi palestinesi in Cisgiordania. Nonostante sia stato candidato e abbia vinto all’Academy, i distributori americani si sono rifiutati di comprarlo e il film non è arrivato nei cinema.

Il collettivo israeliano palestinese del film (Adra, Abraham e gli altri due registi Hamdan Ballal e Rachel Szor) ha dovuto organizzarsi le proiezioni in modo indipendente. Proiezioni che hanno riscosso un notevole successo, viste le circostanze: dei cinque candidati all’Oscar per il Miglior documentario, No Other Land era l’unico senza distributore ma anche quello che ha incassato di più (420 mila dollari). Secondo il critico e scrittore Saleem Albeik le motivazioni sono state eminentemente politiche, un tentativo di ridurre le possibilità che vincesse l’Oscar. Ad Al Jazeera ha detto che No Other Land mostra come la Nakba (la distruzione, l’esodo forzato di circa 700 mila arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel 1948) non sia mai finita, come i palestinesi della Cisgiordania debbano affrontarla ogni giorno da quasi ottant’anni.

Masafer Yatta contro i coloni

Basel Adra viene da lì, è cresciuto in una famiglia di attivisti nel villaggio di At-Tuwani, sulle colline a sud di Hebron. Yuval Abraham è israeliano di Be’er Sheva. Questi posti sono distanti circa 44 chilometri – poco più della metà della circonferenza del Raccordo di Roma – eppure, come ha detto Abraham nel suo discorso di accettazione del premio Oscar: «Quando guardo Basel, vedo mio fratello, ma noi due non siamo uguali. Viviamo in un regime in cui io sono libero, governato dalla legge civile, e Basel vive sotto la legge militare, che distrugge l’esistenza e che lui non può controllare». Da decenni i coloni israeliani, spesso supportati dall’esercito e organizzati a volte in milizie armate, costringono con la forza i palestinesi ad andarsene per costruire i loro insediamenti – colonie e zone militari di addestramento. Arrivano con i bulldozer e radono al suolo le case. Divellono gli ulivi, le tubature dell’irrigazione, distruggono i pannelli solari e i pollai, riempiono i pozzi di cemento. No Other Land è una testimonianza di tutto questo, dell’oppressione dei coloni e della resilienza degli abitanti di Masafer Yatta e di tutto il popolo palestinese, caparbio e devoto alla terra che lo ha generato e nutrito.

Il film copre gli anni dal 2019 al 2023: «Ho iniziato a filmare quando noi abbiamo iniziato a finire», dice Basel nella prima scena. Yuval è arrivato a Masafer Yatta come reporter per scrivere delle demolizioni continue e della violenza dell’occupazione, e non se n’è mai andato – anche se ogni giorno torna a casa sua liberamente. Il film è un atto di lotta, un documento che non vuole suscitare pietà, ma attraverso le storie di persone che dedicano la loro vita a difendere il diritto a vivere sulla terra dove sono nate e cresciute, ispirare all’azione – è la dichiarazione d’intenti dello stesso Adra. I coloni radono al suolo le scuole, costruite un mattone alla volta dagli abitanti del villaggio. E allora i palestinesi prendono di nuovo in mano la cazzuola e ricominciano a ricostruire, ma di notte, per non essere interrotti, picchiati e arrestati.

Nelle ultime settimane, quelle del cessate il fuoco, abbiamo visto i Reel dei gazawi sopravvissuti che tornano nelle loro case, quasi sempre ridotte a un cumulo di macerie, e spazzano via la distruzione, i vetri rotti, pezzi di corpi, e invece di soccombere al dolore sbattono i tappeti, e ringraziano Dio, cercando un nuovo spazio dove seminare i cetrioli. Gli abitanti di Masafer Yatta scendono in strada per protestare contro l’occupazione illegale. Lo fanno da più di trent’anni, il film mostra molte vecchie riprese del padre di Basel da giovane. Già gli accordi di Oslo nel 1993 volevano bloccare gli insediamenti, illegali per la legge internazionale, ma questi sono aumentati rapidamente soprattutto durante il governo di Netanyahu. E le proteste non si sono mai fermate, nonostante la violenza, i mitra e le armi di Israele contro i cartelli e i cori dei palestinesi. In una scena straziante un soldato spara a un manifestante, Harun: l’uomo resta paralizzato, la famiglia sfollata e la madre è costretta a prendersi cura di lui vivendo in una grotta umida, dove molte di queste persone si sono improvvisate e rifugiate, rendendo casa una caverna, pur di non abbandonare la terra. C’è sempre una televisione accesa, un tè sul fuoco, una famiglia che chiacchiera.

La quotidianità sotto l’occupazione

No Other Land mostra non solo la crudeltà, ma anche la fatica della quotidianità sotto l’occupazione. Violenza, pestaggi, arresti, checkpoint sfiancanti e controlli interminabili che rendono impossibile percorrere anche poche centinaia di metri: serve un permesso speciale per fare qualunque cosa nella terra dove sei nato e che, oltretutto, non puoi lasciare liberamente. Nel discorso agli Oscar Basel ha detto che non vuole che sua figlia cresca come lui, conoscendo e temendo l’occupazione israeliana e la migrazione forzata. Adra si rivolge alla comunità internazionale per parlare della guerra a Gaza e chiedere un’azione immediata contro l’ingiustizia e la pulizia etnica. Abraham aggiunge la necessità di liberare gli ostaggi di Hamas, e denuncia la complicità del governo americano nel bloccare la costruzione di una pace duratura. Mentre Trump parla della Riviera, e il ministro della cultura israeliano Miki Zohar definisce la vittoria del film un sabotaggio contro lo Stato di Israele, vengono annunciati nuovi insediamenti e il metodo militare di Gaza fa scuola per le future operazioni in Cisgiordania. Le demolizioni si intensificano, anche dopo il cessate il fuoco del 19 gennaio. La pagina Instagram Humans of Masafer Yatta e la rivista israeliana-palestinese +972 continuano a mostrare i soprusi e l’umanità che resiste.

Di fronte alle decine di migliaia di persone massacrate potrebbero sembrare poca cosa un furto di bestiame, la produzione di yogurt di una famiglia rovesciata a terra, un’automobile bruciata. Ma ognuna di queste azioni concorre alla strategia, protetta e supportata dalla legge, di annientare e cancellare, rendendo insopportabile la vita ogni giorno, anche attraverso una burocrazia beffarda e insensata, e autorità che si comportano da bulli. Su +972 descrivono una nuova tattica di occupazione di moda nella West Bank: un colono fotografa il gregge di un palestinese, poi va dalla polizia e denuncia il palestinese dicendo che gliel’ha rubato. A chi darà ragione la polizia israeliana? Un israeliano e un palestinese, dice Abraham, hanno fatto questo film perché le loro voci insieme sono più forti. Si gira verso l’amico: «Non vedete che siamo intrecciati? Che il mio popolo può essere davvero al sicuro solo se il popolo di Basel sarà veramente al sicuro, e libero? C’è un’altra via, non è tardi per la vita, non è tardi per chi è vivo». No other land, no other way. Domenica era anche il primo giorno di Ramadan e una tavola lunga tutta una strada è stata imbandita tra le macerie di Gaza. Nessuno se ne andrà mai: per mille guerre, mille progetti di folli miliardari, ci saranno mille e una festa per Iftar.