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Fate ancora in tempo a vedere L’uomo nel bosco, già il film preferito dei cinefili
Il film di Alain Guiraudie è al primo posto nella classifica dei Cahiers du cinéma, la venerata lista dei migliori film dell'anno in cui titoli come The Substance ed Emilia Pérez non compaiono neanche.

Con ben due registi su cinque nella cinquina degli Oscar dedicata – Jacques Audiard e Coraline Fargeat – si può ben dire che quello appena trascorso sia stato un anno trionfale per il cinema francese. Qualitativamente non è nemmeno il migliore dell’ultimo quinquennio, solo quello in cui il pragmatismo e la capacità tutta statunitense di trasformare ogni opportunità in business hanno finalmente salvato la Francia dalla sua incapacità di far apprezzare anche oltre confine le sue vette filmiche.
Il cinema francese gira a livelli impensabili qui da noi, specie sul fronte autoriale. Un po’ perché è più ricco, giovane, seguito dal pubblico e quindi vitale, un po’ perché, non c’è niente da fare, è di migliore fattura, ha più idee e più teste fine. Se non domina lo scenario internazionale è più che altro perché è strozzato dallo sciovinismo tipicamente francese secondo cui oltre la Palma d’Oro e i Premi César, il resto è provincia. Sì, anche gli Oscar.
Quindi no, né Emilia Pérez né The Substance sono il film francese più apprezzato in patria dell’ultima annata. Per capire cosa piace davvero ai cinefili d’Oltralpe – specie parimenti esigente e altezzosa – c’è fortunatamente un metronomo affidabilissimo. Una rivista di critica cinematografica che è la rivista di critica cinematografica, almeno dal punto di vista francese. Certo che poi vedendo l’attesa e l’eccitazione con cui viene accolta la classifica dei migliori film dell’anno stillata da Cahiers du cinéma, qualche dubbio che sotto tutta questa spocchia ci sia del fondamento viene anche.
Quale altra testata specializzata non anglofona è sinonimo di cinema di qualità, tanto da apparire come token e totem al fianco del stereotipato cinefilo snob (ultima apparizione in ordine di tempo: tra le mani di Colin Farrell in Sugar, serie Apple TV+)? La top dieci di Cahiers ogni anno è un evento, un rito e uno straordinario risultato di genio editoriale, dato che è unica nel suo genere per carisma e ritualità.
Smodatamente patriottica, orgogliosamente autoriale, con quel gusto per la boutade che fa sempre includere almeno un titolo che suscita sdegno e scandalo. Il lettore poco avvezzo ne ricaverà più che altro perplessità, dato che sicuramente non include i film più popolari dell’annata. Diciamo pure che se avete visto più della metà dei film presenti, siete autorizzati a vantarvi o avete speso probabilmente molto, troppo tempo in sala o su Letterboxd.
Nell’anno appena trascorso alla posizione numero uno – perché sì, Cahiers ne fa anche una deliziosa questione di graduatoria, mettendo i film uno contro l’altro – c’è L’uomo nel bosco (Miséricorde) di Alain Guiraudie, illustre sconosciuto al grande pubblico ma già al suo quinto passaggio in questa classifica. Un habitué, un grande amore di Cahiers. Alla sua seconda medaglia d’oro, dodici anni dopo Lo sconosciuto del lago.
Il cinema di Guiraudie d’altronde è una manna per chi in sala vuole costantemente essere sfidato, talvolta irriso, messo in posizioni scomode, di fronte a scene sconvenienti. Entri in sala per vedere un suo film e se dopo mezz’ora non c’è ancora stato un full frontal o un giro di trama spiazzante, ti chiedi cosa gli sia successo. L’aspetto straordinario di L’uomo nel bosco è che ha conquistato il suo pubblico di riferimento facendo proprio questo: smentendo le aspettative rispetto al cinema queer, eccessivo, sfrontato che ci si aspetta da un film a la Cahiers. Proprio nell’anno in cui tutti – da Guadagnino a Audiard, passando ovviamente per Fargeat e per la Palma d’Oro Anora di Sean Baker – il loro cinema ce l’hanno gridato in faccia.
Nell’anno in cui il sesso, almeno a Cannes e Venezia, ha fatto timidamente ritorno, nell’anno delle secchiate di sangue di The Substance e delle partite di tennis dal sottotesto omoerotico di Challengers, nell’anno in cui tutti hanno alzato di un paio di ottave le antifone dei loro film, Guiraudie ha fatto la cosa più guiraudiana di tutte: ha presentato un film sottile, allusivo, spirituale. Almeno per i suoi standard, perché comunque un paio di full frontal ci scappano (uno dei quali in canonica).
Quello che stupisce chi il cinema di Guiraudie lo frequenta abitualmente è l’approccio elegiaco di questa pellicola scritta dopo aver seguito distrattamente di un caso di cronaca nera al telegiornale. Una pellicola che parla delle tematiche che il regista esplora da sempre, ma stavolta quasi sussurrando, sottovoce. Come in un confessionale.
L’uomo nel bosco si apre esattamente come Tom à la ferme del canadese Xavier Dolan ed è altrettanto hitchcockiano, se Hitchcock avesse girato film esplicitamente queer. Un giovane ragazzo dall’aria sciupata, incurante del suo sex appeal palpabile, torna nel paesello di campagna nell’Aveyron per il funerale del fornaio del paese, che gli ha insegnato il mestiere tanti anni prima.
Appare chiaro da subito che per lui fosse una persona importante, non si capisce in che termini, né se fosse un sentimento ricambiato. Jérémie finisce per rimanere invischiato negli strascichi familiari post cerimonia funebre. Un invito a pernottare dalla vedova si trasforma nella sua presenza fissa nella casa della stessa, con grande irritazione del figlio di lei. Non è chiaro se lui odi Jérémie per il rapporto che aveva col padre, per quello che sta creando con sua madre o per quello che, suo malgrado, gli fa provare.
Segue una scomparsa, un crimine fotografato dalla sequenza più elettrizzante del film e la trasformazione di Jérémie nel Caino del paese, che si porta addosso un segno invisibile ma chiarissimo a tutti. È un forestiero, un paesano che se n’è andato, uno che di ciò che è successo sa qualcosa. Per giunta si è installato a casa della vedova di notte, passa i pomeriggi a casa dell’ubriacone del paese che poi lo allontana sparandogli, salvo poi reinvitarlo e farlo ubriacare. Jérémie prende a frequentare i boschi pur essendo un pessimo raccoglitore di funghi, imbattendosi continuamente nel prete della parrocchia. Un parroco che sembra sempre sapere tutto. Soprattutto quando aprir bocca, andando oltre uno sguardo tra il paterno e il perennemente ironico.
L’uomo nel bosco si apre come un thriller hitchcockiano ma diventa racconto dostoevskiano sulla colpa e il perdono, fino a tramutarsi in una bizzarra commedia nera in cui tutti vogliono baciare Caino. O quantomeno assolverlo, a partire dal suddetto prete, che in un ribaltamento molto anticlericale e molto guiraudiano, spinge Jérémie dentro il confessionale e lo costringe ad ascoltare la sua confessione, a dargli l’assoluzione. Togliendogli persino il peso di dover ammettere ciò che ha fatto. Prima di invitarlo, gentilmente, tra le sue lenzuola.
Dietro il suo sottile anticlericalismo, dietro una visione più che radicale del sistema carcerario e dell’inutilità dello stesso, Guiraudie torna al grande mistero umano che esplora da sempre: il desiderio per l’altro. In Lo sconosciuto del lago, un potentissimo thriller lacustre fatto con pochissime location, un pugno di attori e ancor meno soldi, ne esplorava il lato distruttivo e più oscuro. Quello che ti butta tra le braccia del crimine, alla ricerca della petite mort, sperando di non incontrare quella vera.
Dodici anni dopo, in Misericorde, Guiraudie si chiede dove finisca l’altruismo e dove inizi l’egoismo di chi non vuole nulla a parte amare l’oggetto del suo desiderio, ben sapendo che forse non è la migliore delle persone. Un Caino per cui quell’amore può fare la differenza tra una colpa da espiare con la morte e un futuro da immaginare accanto a qualcuno. Segnati dalla colpa, ma salvati dall’amore, rimandati in mezzo agli altri per essere giudicati, incolpati. Sedotti e salvati.