Cultura | Letteratura
È ora di riscoprire Anna Kavan, anche in Italia
Più di 50 anni dopo la morte, i suoi romanzi, che parlano di dipendenza, malattia psichica e soggezione femminile, stanno tornando a essere letti e amati.

Da ormai cinque anni, in Inghilterra e in America, c’è una nuova autrice sperimentale, ma in Italia non la conosce quasi nessuno. No, non è una giovane autrice esordiente, ma una scrittrice inglese nata all’inizio del XX secolo e morta ormai da più di cinquant’anni. Anna Kavan – questo il suo nome – era consapevole di essere un’autrice poco nota e, già nel 1943, in una lettera al suo compagno, scriveva che, durante la Seconda guerra mondiale, la sua scrittura sperimentale era “completely out”, del tutto fuori dai canoni della letteratura inglese realista.
Negli ultimi anni, a contribuire alla riscoperta della sua opera letteraria sono state la nuova ristampa di Amongst those Left: The British Sperimental Novel 1940-1980 di Francis Booth (Dalkey Archive, 2020), un importante studio sulla letteratura sperimentale nella Gran Bretagna del XX secolo in cui Kavan si ritagliò un ruolo di primissimo piano, e la contemporaneità, e assoluta centralità nella narrativa presente, dei temi da lei indagati – dalla dipendenza da sostanze stupefacenti alla malattia psichica, dai cambiamenti climatici alla soggezione femminile.
Da non dimenticare, inoltre, che Deborah Levy, una delle più importanti scrittrici inglesi di oggi, finalista al Man Booker Prize con il romanzo A nuoto verso casa (Garzanti, 2014) e conosciuta in Italia soprattutto per la sua Autobiografia in movimento (NN Editore, 2024), in un’intervista pubblicata nel 2019 su New Statesman, incluse Anna Kavan tra le scrittrici britanniche del passato meritevoli di un premio Goldsmiths retrospettivo. Secondo Levy, insieme ad Ann Quin e Virginia Woolf, Anna Kavan creò un linguaggio strano e affascinante a cui lei stessa guardò quando cominciò a scrivere il suo primo romanzo.
La prosa di Anna Kavan è oscura, fantasmatica e sfuggente quanto la sua esistenza che si presenta oggi di difficile documentazione poiché, in un momento imprecisato, la scrittrice distrusse gran parte della sua corrispondenza epistolare e tutto il suo diario tranne un anno (1926-1927). Di conseguenza, impossibilitati ad attingere dai testi di natura autobiografica, i suoi due biografi – David Callard, autore di The Case of Anna Kavan (Peter Owen, 1964) e Jeremy Reed, autore di A Stranger on Earth: The Life and Work of Anna Kavan (Owen, 2006) –, presero più volte l’opera kavaniana come riferimento documentale della sua vita, arrivando persino ad attribuire all’autrice frasi pronunciate o pensate da un personaggio di sua finzione.
Anna Kavan nacque a Cannes nel 1901 con il nome di Helen Emily Woods. Figlia unica di un’agiata famiglia inglese, visse i primi anni della sua vita in giro tra l’Europa e gli Stati Uniti finché, nel 1911, in seguito al suicidio del padre, gettatosi dal ponte di una nave diretta in Sud America, fece ritorno in Inghilterra, dove studiò prima alla Parsons Mead School di Ashstead, poi al Malvern College nel Worcestershire. A diciannove anni, il suo desiderio di continuare gli studi a Oxford rimase inascoltato di fronte alla decisione materna di darla in moglie a Donald Ferguson, un ingegnere delle stampe, di dieci anni più grande, in servizio alla Compagnia Ferroviaria della Birmania, dove la nuova signora Ferguson si trasferì, dando alla luce il suo primo figlio.
Nel 1925, trovando insostenibile l’assoggettamento al marito, ritornò in Inghilterra e cominciò a scrivere, dando alle stampe, con il nome di Helen Ferguson, i suoi primi romanzi A Charmed Circle (1929), The Dark Sisters (1930) e Let Me Alone (1930). Queste sue prime esperienze narrative, accumunate dal tema dell’oppressione femminile all’interno della società patriarcale, le valsero l’epiteto di autrice “proto-femminista”, nonostante Ferguson non abbia mai preso parte attiva alle battaglie combattute dai primi movimenti femministi nell’Inghilterra degli anni ’30.
Parallelamente all’attività di scrittura, si iscrisse alla London Central School of Arts and Craft e cominciò a dipingere, ritagliandosi un piccolo spazio come autrice di autoritratti e ritratti. Nei suoi dipinti, lasciati in eredità all’editore Peter Owen, prendono vita corpi fantomatici di donne senza età, i tratti fisionomici spigolosi, gli occhi ciechi, le labbra serrate. Come le protagoniste dei suoi futuri racconti, le donne ritratte sono creature inquiete e inquietanti, abitanti di un mondo ultraterreno, accessibile all’umanità nei sogni, nelle allucinazioni o nelle esperienze indotte dall’uso di droghe. Droghe che Helen Ferguson aveva già sperimentato in Birmania e a cui si avvicinò sempre di più quando conobbe il suo secondo futuro marito, il pittore Stuart Edmonds.
Alla dipendenza sempre più stringente dall’eroina – in un’annotazione del suo unico diario rimasto, scrisse: «L’H rende belli gli occhi… Mi sono guardata allo specchio per molto, il che mi ha dato un vero piacere» – si sommò un periodo di profonda depressione, accentuata dalla morte in culla della secondogenita. Consumata dalla vita, Helen Ferguson-Edmonds tentò il suicidio e fu ricoverata in una clinica psichiatrica della Svizzera.
All’indomani dell’uscita dalla clinica elvetica e della pubblicazione di Asylum Piece (1940) – la sua prima raccolta di racconti ispirata all’internamento psichiatrico – la scrittrice scelse di adottare il nome di Anna Kavan, l’eroina dei suoi due precedenti romanzi, e rivoluzionò radicalmente la sua prosa, che si fece molto più oscura e asciutta, quasi ridotta all’osso. La metamorfosi in Kavan fu una chiara dichiarazione di vicinanza a Franz Kafka, lo scrittore che, da quel momento, più la influenzò nelle sue scelte di stile e di immaginario – nel 1995, in uno studio pubblicato dalla Syracuse University Press, lo scrittore di fantascienza Brian Aldiss la definì “la sorella di Kafka”.
Fortemente ispirato al romanzo kafkiano Il processo, Asylum Piece è il racconto a frammenti di una giovane donna processata e condannata, a sua insaputa, a una pena gravissima, senza sapere di cosa e da chi sia accusata. «Come si può sperare di provare la propria innocenza quando non si ha modo di sapere di che cosa si è accusati?», si domanda, certa che ogni essere umano, vicino o lontano, potrebbe rivelarsi il suo persecutore, un carceriere spietato, che non sarà soddisfatto finché non avrà raggiunto il suo unico scopo: la distruzione completa della vittima. «Il fatto che non sappia assolutamente nulla di lui mi rende la vita impossibile, perché sono costretta a considerare con eguale sospetto tutte le persone che conosco. Non esiste, letteralmente, al mondo una sola persona di cui mi possa fidare».
L’immersione nel mondo convulso della psiche umana va sempre più a fondo, cola sempre più a picco, ma il linguaggio di Kavan rimane lucido, controllato, pulito. La scrittrice Anaïs Nin, che ammirava la straordinaria prosa cristallina di Kavan e tentò più volte di conoscerla, definì Asylum Piece «un esempio di lucidità classica mentre si entra in mondi irrazionali». L’irrazionale che diventa razionale, nel momento in cui non si trovano più ragioni di vita.
Durante i primi anni della Seconda guerra mondiale, intraprese un lungo viaggio tra Indonesia, New York e Nuova Zelanda, con il nuovo compagno, lo scrittore Ian Hamilton. Nel 1942, mentre Hamilton fu imprigionato come renitente alla leva, Kavan fece ritorno in Inghilterra e lavorò per un breve periodo al Mill Hill Emergency Hospital, intervistando i soldati reduci dalla guerra e affetti da disturbo post-traumatico. Sul finire della guerra, l’infelicità le ripiombò addosso con la morte del suo primogenito, Bryan Gratney Ferguson, in servizio durante la Seconda guerra mondiale. Fondamentale fu allora, per Kavan, l’incontro con lo psichiatra tedesco Karl Theodor Bluth e, il ricovero, da questi organizzato, presso il Sanatorio svizzero di Bellevue, dove Kavan ricevette le cure di Ludwig Binswanger, psichiatra svizzero, pioniere nel campo della psicologia esistenziale.
Sola, né più madre né moglie, Kavan visse la seconda parte della sua vita a Notting Hill, ricevendo magri compensi per la sua scrittura e soffrendo di cattive condizioni di salute. Nel 1967, conobbe un breve momento di fama letteraria, in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo Ice (pubblicato in Italia da 451 con prefazione di Claudia Durastanti). Intitolato originariamente The Cold Word, il suo editore Peter Owen lo definì “un incrocio tra Kafka e The Avengers”: il racconto di un’apocalisse e di un viaggio avventuroso alla ricerca di una strana donna dai capelli albini. E chissà se, quella donna albina, non sia la sconosciuta che perseguitò Kavan per tutta la sua vita e che, lei stessa, cambiando nome, tingendosi i capelli, bruciando, in maniera tipicamente kafkiana, tutte le sue lettere e tutti i diari, tranne uno solo, perseguitò fino alla sua morte, avvenuta in solitudine nel 1968.