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C’è ancora speranza per la moda uomo

I giorni di moda maschile a Milano ci hanno riservato pochi – ma buoni – show, alcune interessanti presentazioni e molti dubbi sul futuro della manifestazione.

di Silvia Schirinzi

Prima dell’inizio di questa tornata di sfilate, nell’ultimo episodio del nostro podcast Glamorama, insieme a Jacopo Bedussi, Francesco Martino di Gq Italia e Francesco Gerardi abbiamo parlato dell’universo di significati che oggi definisce “i maschi”. Su internet, sulle passerelle, nella vita reale: abbiamo provato a indagare le ispirazioni, i modelli di riferimento, i designer di culto e le personalità più influenti, mentre ci chiedevamo quanta della moda “tradizionale” riesca effettivamente a star dietro a quello che succede in una “manosphere” così complessa e stratificata. Ci siamo detti che il calendario scarico di appuntamenti di questo weekend lungo di sfilate maschili a Milano non è un buon segnale per nessuno: non tanto perché è la quantità a definire la rilevanza di una manifestazione, ma perché è chiaro che Milano, e l’industria che rappresenta, stanno attraversando un momento di difficoltà estrema. Perché fatica ad attirare nuovi talenti dall’estero, fatica a supportare i marchi indipendenti, fatica a offrire punti di vista variegati.

Dolce&Gabbana Fall Winter 2025. Photo courtesy of Dolce&Gabbana

Lo stesso succede a Pitti, che la moda maschile la inaugura e che quest’anno ha visto il debutto di Setchu, il marchio di Satoshi Kuwata che ha vinto l’Lvmh Prize nel 2023. Una prima volta in cui Kuwata ha provato a mescolare tutte le sue ispirazioni, dal tailoring di Huntsman & Sons di Savile Row, con cui ha collaborato, alla passione per la pesca, dai manga erotici giapponesi alle manipolazioni tessili di cui è maestro. A fronte delle defezioni importanti, come quelle di Gucci e Fendi, che hanno scelto la formula co-ed, e quella di J.W. Anderson, questi pochi giorni di Milano qualche spunto di riflessione, però, lo hanno offerto. Se la formula dello show è lasciata quasi esclusivamente a chi se la può permettere, allora questa è stata tutto sommato una buona stagione, e se gli spazi vuoti possono essere riempiti da altre formule, a Milano abbiamo visto che esistono energie differenti e non centralizzate, spesso poco raccontate perché non ricadono nella categoria della classica sfilata.

Ma andiamo con ordine, e iniziamo da chi lo stile italiano l’ha definito nel mondo e i cui rimandi sono ancora visibili nel lavoro di designer venuti molte generazioni dopo, italiani e non. Parliamo di Giorgio Armani, ritornato per questa stagione con entrambi i marchi nella sua Milano, che da Emporio Armani ha dimostrato perché è uno dei pochi che ha ridefinito la silhouette maschile. La collezione era dedicata a un giovane seduttore, che non ha paura di stampe animalier, broccati, colli di pelliccia e accenni metallizzati, portati con quell’attitudine armaniana che è cocciuta nel non volersi modernizzare (nel set, nella colonna sonora, nella camminata) perché la modernità nell’abbigliamento in fin dei conti se l’è inventata lui e il contorno non gli serve. Nel marchio che porta il suo nome, con un cast di modelli dai tratti più maturi – Giorgio Armani sa cos’è il mewing? O il looksmaxxing di cui cianciano gli influencer della bolla maschile? Magari si divertirebbe a guardarli – continua a vestire i suoi uomini con le cose che sa far cadere bene sul corpo, visto che il corpo è un tempio e un riferimento imprescindibile nella sua moda, infondendo loro quella sicurezza e disinvoltura che oggi si chiama “rizz” o “aura”, ma che in realtà è una qualità di Armani da sempre.

Emporio Armani Fall Winter 2025. Photo courtesy of Emporio Armani
Magliano Fall Winter 2025. Photo courtesy of Magliano

Anche da Dolce&Gabbana conoscono bene i loro punti di forza e funzionano al meglio quando li mettono al centro, o sotto i riflettori, come nella collezione intitolata “Paparazzi” che, per letteralità, aveva un gruppo di paparazzi incravattati ad accogliere ogni uscita. L’ispirazione era Federico Fellini, naturalmente, l’esecuzione era il meglio di Dolce&Gabbana a cavallo degli anni Duemila: esuberanti nei loro giganti cappotti pelosi, strafottenti con i loro pettorali esposti su cui ricadono le catene d’oro, eleganti con le maxi spille gioiello appuntate sulle giacche dai tagli precisissimi che però non costringono mai, questi giovani uomini sono dei mega Chad? Chi può dirlo, di sicuro sono bellissimi. Da Zegna, invece, gli uomini – con gli occhiali appoggiati sulla fronte o appesi al collo come se si fossero appena alzati dalla scrivania o da un incontro di lavoro – trasudano sofisticazione e in qualche modo anche potere ma nel solco dell’understatement, mentre molti degli uomini al potere di oggi sono dei chiassosi, spesso ridicolmente attillati. Oppure sono Elon Musk.

C’era al contrario una vulnerabilità un po’ ribelle un po’ romantica da Prada, dove la collezione si intitola “Unbroken Istincts” e gioca come sempre sugli opposti: duro (come il pezzo di tubo Innocenti dell’invito e la scaffalatura di AMO che faceva da set) e morbido (come la moquette disegnata da Catherine Martin, i colli di pelliccia tagliati a vivo, il pigiama bianco o blu che in realtà è di pelle), in bilico tra la necessità di essere presentabili, civili, conformi all’esterno e il comfort degli spazi chiusi, raccolti: chi non è mai uscito a fare una piccola commissione o a fumare il balcone con la giacca sopra al pigiama? O magari la vestaglia, come quella che per Raf Simons e Miuccia Prada diventa un capo da sera, da abbinare a stivali da cowboy e monili che fanno il verso alle palle da basket o a un certo, moderato, armamentario bdsm. “When you left the house in your I don’t give a fuck outfit but now you out and give a fuck” avevo letto da qualche parte su TikTok, un’immagine che ho screenshottato e conservato perché mi fa ridere e che nella sua ironia spicciola un po’ mi sembra racconti di quella tensione primitiva che anima Prada, quella “sporchezza” che include dentro di sé tutto quello che nella manosphere non sembra ammesso: indefinitezza, errore, umanità.

Tutti elementi, questi, che si ritrovano anche da Magliano, ormai una delle certezze della moda italiana. La sabbia sulla passerella, e i castelli distrutti dai calci di immaginari bambini capricciosi, ricrea «un languido limite adriatico» dove incedono i modelli. Anche Magliano gioca con l’inversione, a cominciare dalle giacche leggere e i pantaloni pesanti, che «aspirano al nudo», a scoprire quello che c’è sotto: Nudo by Magliano è anche una nuova etichetta, si legge nella nota ufficiale, dedicata al basico riletto, qualcosa che si ritrova nella «borsa che indossa le mutande», disegnata dal duo di Medea, e nel modo in cui pezzi di t-shirt, smontate e annodate, compaiono per tutta la collezione trasformandosi da scarto a decoro. Hanno deciso di sposarsi a conclusione del loro show, invece, Jordan Bowen e Luca Marchetto, ovvero Jordanluca, che hanno celebrato insieme a familiari, amici e ospiti la loro unione, che è creativa e, appunto, umana: è stato uno dei momenti più genuinamente emozionanti di queste sfilate, arrivato a conclusione di una collezione che era un best of del loro marchio, dove la sensibilità al tailoring si unisce a un’attitudine punk. Accompagnati dal bel discorso pronunciato dalla celebrante, si sono sposati «two beautiful men» accumunati da quattordici anni insieme e tutte le difficoltà condivise, dall’ossessione per il loro lavoro e dalla voglia di non arrendersi, nella vita come nella moda. È stato bello farne parte.

GR10K Fall Winter 2025. Photo courtesy of GR10K
Rold Skov Fall Winter 2025. Photo courtesy of Rold Skov

Ma c’è anche chi non ha scelto la formula dello show, dicevamo, ed è lì che si sono viste cose interessantissime, a cominciare da GR10K, che ha presentato “Der Blaue Reiter”, una collezione che come sempre per il marchio parte da una riflessione sull’abbigliamento da lavoro e i suoi significati. Al di là delle categorie commerciali, GR10K ci ricorda che in questi capi moltissimi artisti hanno espresso il meglio della loro creatività, come il collettivo a cui fa riferimento il titolo della collezione (quello formato da Wassily Kandinsky, Franz Marc, Paul Klee, August Macke, Alexej von Jawlensky, Marianne von Werefkin e Gabriele Münter) e che dietro al basico e all’uniforme c’è molto di più. Una conversazione attuale, che si collega all’affaticamento da trend e al dibattito sullo stile personale, che in qualche modo esprimono una necessità spesso trascurata dalla moda: quella di vestire le persone nella vita reale.

Particolarmente riuscita è stata poi la performance di Rold Skov, marchio che abbiamo raccontato sull’ultimo numero di Rivista Studio con un’intervista di Lorenzo De Angelis al suo fondatore, Francesco Rossini. Rold Skov nasce nel 2016 ed è alla sua seconda presentazione a Milano, la prima ufficialmente segnata in calendario, e unisce il minimalismo scandinavo alla funzionalità sportswear. All’ex Atomic Bar di via Casati (oggi Detune), per anni punto di riferimento dell’underground milanese, si è tenuto un live in cui nove musicisti, da Generic Animal a Motel Cecil tra gli altri, si sono avvicendati sul palco cantando uno dei pezzi dell’altro, per raccontare di uno scambio creativo, arricchente, e di una scena indipendente che esiste, e sta bene. Molto meglio di una sfilata e molto più vicina al proprio target di riferimento, qualcosa che come raccontavamo in Glamorama è oggi la chiave per il successo di marchi come Our Legacy o Lemaire. Marchi che sanno a chi parlano e che non hanno la necessità di urlare per farsi ascoltare: al contrario hanno spesso una dimensione quasi intima, quotidiana nella migliore delle accezioni e anche molto fluida, la migliore eredità di certe conversazioni sulla moda che ci siamo ormai lasciati alle spalle inseguendo i -core di TikTok. Per la moda c’è speranza, basta sapere dove guardare.

In apertura: Prada Fall Winter 2025. Photo courtesy of Prada