
Cultura | Personaggi
David Lynch dall’inizio alla fine
Ha fatto la storia del cinema, certo. Ma si è cimentato con tutte le arti ed è stato un personaggio divertente e indecifrabile, un alieno, un talento totale.
La carriera da regista di David Lynch è cominciata rovistando nell’immondizia. Negli anni ’70 era talmente povero che non poteva permettersi né di affittare un set né di comprare la pellicola. I pochi soldi che aveva li spendeva in sigarette (almeno due pacchetti al giorno) e caffè (almeno venti tazze ogni dì), non perché fosse un vizioso ma perché considerava entrambe le cose come «fondamentali per fare la vita da regista» quanto il set e la pellicola. In ogni caso, alla fine trova una soluzione a entrambi i problemi. Siccome i soldi per pagare contemporaneamente l’affitto di un appartamento e di un set non ce li ha, lascia l’appartamento e va a vivere sul set: per cinque anni – dal ’72 al ’77, tanto gli ci è voluto per girare il suo primo lungometraggio – dorme spesso in uno stabile nel campus dell’American Film Institute di Los Angeles. Il problema della pellicola lo risolve riciclando: i cassonetti dell’immondizia fuori dagli studios di Hollywood e dalle facoltà di cinema losangeline sono sempre pieni di avanzi di pellicola, lui questi cassonetti ha tutto il tempo di ispezionarli con cura perché tanto di giorno è libero, le riprese del film ha deciso di farle di notte.
È in queste condizioni che Lynch gira Eraserhead ed è così che intenderà fino alla fine «la vita da regista», seguendo la nobilissima tradizione dei maverick americani. Eraserhead è il film che cambia tutto, per lui e per il cinema Usa. Grazie alle proiezioni di mezzanotte al Waverly Theatre, nel Greenwich Village, a New York – la stessa sala che un anno prima aveva contribuito a trasformare il Rocky Horror Picture Show da fiasco in culto – nel 1978 quel film diventa il film, il midnight movie definitivo. Vanno a vederlo tutti: Stanley Kubrick, che ne diventa talmente ossessionato da costringere tutto il cast e tutta la troupe di Shining a guardarlo in continuazione così da «essere dell’umore giusto per girare un horror»; Mel Brooks, che decide che Lynch è il regista perfetto per questo film assai strano che ha deciso di produrre, una versione romanzata della vita di John Merrick, passato alla storia come l’Elephant Man; George Lucas, che con l’intuito che lo contraddistingue capisce subito che Lynch è the next big thing e le prova tutte per convincerlo a girare il terzo capitolo della prima trilogia di Guerre stellari, Il ritorno dello Jedi. Lynch lo ringrazia e declina l’offerta perché ha deciso che preferisce fare il film di Brooks, quello sull’Elephant Man: è più nelle sue corde.

Oggi siamo abituati a registi di cinema indipendente o d’autore messi a dirigere i film mainstream, commerciali. All’epoca del rifiuto di Lynch a Lucas, però, era un fatto insolito, una strada che nessuno aveva battuto prima. Lynch fu uno dei primi registi-autori a cui Hollywood decise di affidare una proprietà intellettuale multimiliardaria, un franchise. Quella volta rifiuta e Il ritorno dello Jedi alla fine lo dirige Richard Marquand, ma il pensiero di poter diventare George Lucas a Lynch rimane in testa a lungo. Si convince che la possibilità è reale dopo il successo di The Elephant Man, con quelle otto candidature agli Oscar che fanno di lui qualcosa di più, molto di più di una giovane promessa. Lynch ha fatto del non spiegarsi mai la sua regola aurea, quindi non sappiamo e non sapremo mai cosa lo convinse di essere il regista giusto per la trasposizione cinematografica del Dune di Frank Herbert, se davvero il successo di The Elephant Man o chissà cos’altro. Forse fu hybris, nel qual caso si può dire che ha passato il resto della sua carriera a punirsi per quel peccato. Il disastro di quel Dune è diventato leggenda, ma in quella storia si legge anche il vero carattere di un uomo gelosissimo della sua indecifrabilità. Quando si trattava dei suoi film, Lynch era orgoglioso e permaloso. L’affronto che gli fece la Dino De Laurentiis pervertendo il film in post produzione lui non lo dimenticherà né perdonerà mai. Intimò alla produzione di cancellare il suo nome da tutte le distribuzioni del film successive alla prima, per sempre.
È forse l’unico Lynch negativo di cui si ha testimonianza, questo, un’eccezione nella vita di un uomo convinto che «la negatività è nemica della creatività». Ma al disastro di Dune si deve anche, in parte, Lynch per come lo abbiamo conosciuto tutti e per come lo celebriamo oggi. È Dune che gli fa capire che quella strada, quella del cinema mainstream e commerciale, non è sua. È il fiasco di Dune che lo spinge a immergersi ancora più in profondità in quel mare nero che lui definisce «coscienza assoluta», dove nuotano le idee che paragonava sempre ai pesci. Le idee esistono già, esistono sempre, il compito del regista è soltanto quello di immergersi nella coscienza assoluta e acchiapparle, tirarle su, mostrarle a tutti: questa era la sua filosofia. «Nessuno pensa che l’esistenza del pesce sia merito del pescatore», diceva a chi gli chiedeva perché lo infastidissero tanto i complimenti per i suoi film. Non c’era quindi motivo di dirgli quanto fosse stato bravo con Velluto blu, Cuore selvaggio, Twin Peaks, Fuoco cammina con me, Strade perdute, Mulholland Drive, Inland Empire, film che nel 2018 convincono l’Oxford English Dictionary ad aggiornarsi inserendo l’aggettivo “lynchiano”. L’unica cosa che innervosiva Lynch più dei complimenti erano le spiegazioni: «Uno fa un film e appena finisce di farlo la gente subito vuole mettersi a parlare del film. Io parlo attraverso il film». Una volta disse a un giornalista che Inland Empire era sicuramente la sua opera più spirituale; il giornalista gli chiese di spiegarsi meglio; Lynch gli rispose semplicemente «no». Si è sempre rifiutato di registrare un video commento da aggiungere alle versioni home video dei suoi film. Ognuno si cerchi e trovi il suo senso, diceva, e non rompetemi i coglioni se i miei film non si capiscono perché «nemmeno la vita si capisce». L’unica eccezione, parziale: i dieci indizi inseriti in una versione dvd del 2002 di Mulholland Drive.

Il disastro di Dune ha anche un altro merito: quello di aver definitivamente convinto Lynch che il mondo non finisce con le colline di Hollywood e che il cinema è soltanto una delle cose che succedono ogni giorno. Per tutta la sua vita, Lynch ha vissuto la cultura da entusiasta, se ne è abbuffato come un ingordo. Non c’è arte né mestiere nel quale non si sia cimentato: ha scattato fotografie, dipinto quadri («l’opera di un paziente psichiatrico che nutre un profondo risentimento», così li definì il New York Times), inciso dischi e colonne sonore, disegnato mobili, lanciato una sua marca di caffè, registrato una serie di suonerie per telefonini («I like to kill deer!»; «My teeth are bleeding»; «What the hell, damn, what the hell!»). Ha fatto la televisione quando ancora non era prestige, scrivendo le premesse di quella che poi sarebbe diventata una Golden Age. Ha diretto video musicali (per Interpol e Nine Inch Nails i più belli, per se stesso il più delirante, “Crazy Clown Time“). Ha fatto le pubblicità di moda (Calvin Klein, Armani, Yves Saint Laurent, Gucci) ma lui la moda non l’ha mai amata: si vestiva sempre uguale, come se indossasse una divisa, abbottonava la camicia sempre fino all’ultimo bottone perché diceva che solo così si sentiva protetto quando stava in pubblico. Esquire scrisse che «David Lynch si veste male: lui può, voi no». La moda, però, amava lui e sono tantissimi i designer che gli devono qualcosa: Raf Simons, Rei Kawakubo, Jun Takahashi, Massimo Giorgetti, solo per citarne alcuni. Si divertiva molto di più a girare gli spot per clienti come Georgia Coffee, l’assessorato alla Sanità del Comune di New York, Clear Blue Pregnancy Test, perché questi clienti erano troppo terrorizzati da lui per dirgli qualsiasi cosa, anche quando si ritrovavano tra le mani dei cortometraggi horror (quello per il lancio della Ps2 è un vero incubo) senza alcun rimando di nessun tipo al brand da promuovere o al prodotto da vendere.
Quello stesso entusiasmo, quella stessa ingordigia culturale gli ha permesso di capire il digitale prima e meglio di tanti. Fu uno dei primi registi a rinnegare la pellicola e ad affermare che il digitale aveva una sua bellezza e che lui la vedeva. Fu uno dei primi registi a capire che i telefonini sarebbero diventati «teatri tascabili». Fu uno dei primi a vedere arrivare internet: si fece subito – lui, personalmente – il suo sito, sul quale si mise presto a caricare “contenuti originali”. Lynch ha saputo da subito che everything is content, che su internet un canale YouTube in cui caricare dei bellissimi cortometraggi (David Lynch Theatre) e una webserie (Weather Report) in cui “enunciare” le previsioni del tempo pari sono, valgono uguale. Lui ha capito internet e internet ha capito lui, perché alla fine si somigliavano e si sono pigliati, Lynch e internet. D’altronde, lui era stato troll prima dei troll: in un’intervista passata alla storia, Hanh Nguyen di IndieWire gli chiedeva cosa fosse cambiato tra la prima e l’ultima stagione di Twin Peaks e lui rispondeva «che sono invecchiato di 25 anni». Meme prima dei meme, come quando pensò che il modo giusto di sostenere la candidatura all’Oscar per Miglior attrice protagonista di Laura Dern fosse sedersi all’angolo tra Hollywood Boulevard e La Brea assieme alla mucca Georgia per dire ai passanti incuriositi che «Without cheese there wouldn’t be an Inland Empire». Wholesome prima che questa parola assumesse il significato che gli si dà oggi online: «Indosso degli occhiali scuri perché ho visto il futuro ed è davvero radioso!», diceva in uno dei suoi video YouTube più perfetti. Uncool before it was cool: «Born Missoula, MT. Eagle Scout», ha sempre scritto in tutte le sue bio, off e online, senza mai rinnegare il passato scoutista. Con quel suo modo di condursi a metà tra il personaggio di una commedia all’americana e l’androide malfunzionante, era l’incarnazione di quell’umorismo surreale di cui internet è capace solo nelle sue migliori manifestazioni. Una delle abitudini che coltivavo gioiosamente era guardare ogni venerdì il profilo X David Lynch Saying It’s A Friday Once Again, sul quale veniva pubblicato ogni settimana il video in cui Lynch urla «CAN YOU BELIEVE IT IT’S A FRIDAY ONCE AGAIN!», sempre e solo quello. Ieri il profilo lo ha ripubblicato per l’ultima volta, per la prima volta di giovedì. Suppongo che la definizione di malinconia sia la cosa che provo in questo momento a pensarci, oggi che è venerdì.

Negli ultimi mesi, l’enfisema polmonare gli rendeva quasi impossibile muoversi. Una delle pochissime cose che Lynch riusciva a fare era sistemare la mangiatoia che aveva montato anni fa nel giardino della sua casa losangelina per dare da mangiare agli uccelli. Vicino alla mangiatoia aveva sistemato una videocamera per riprendere gli uccelli, ma aveva scoperto che gli animali più interessanti da osservare erano gli scoiattoli. Li aveva divisi in due categorie: quelli normali e Gli Altri, come li chiamava lui, quelli disposti a tutto pur di arrivare alla mangiatoia e prendersi il cibo degli uccelli. Alla fine, l’audacia di questi scoiattoli lo aveva costretto a montare dei dissuasori per impedire loro di mangiare tutto il mangime altrui. Osservando gli scoiattoli attraverso la videocamera, aveva scoperto che il nuovo assetto della mangiatoia li aveva indispettiti fino a farli piangere: non sapeva che gli scoiattoli sapessero piangere. La cosa aveva fatto piangere pure lui, e quello era diventato uno dei suoi passatempi preferiti: piangere assieme a quegli animaletti. Chissà se stanno piangendo anche oggi, gli scoiattoli.
Foto in copertina di Hector Mata, AFP via Getty Images.