Industry | Moda
Il caso della Birkin di Walmart conferma la nostra ossessione per i falsi
L’ennesimo caso di copia virale di una delle borse più famose al mondo ci racconta lo stato della moda oggi.
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Che la Birkin di Hermès sia uno degli oggetti di lusso più conosciuti, desiderati e replicati che esistano non è certo una notizia, semmai è curioso osservare come la borsa mantenga intatta la sua capacità di di ispirare copie, esperimenti artistici e accese discussioni, soprattutto online. Nel 2021 il collettivo MSCHF aveva lanciato quello che a loro dire era «il sandalo più esclusivo mai realizzato»: una calzatura simile alle Birkenstock modello Arizona con la consueta suola in sughero e gomma (uno dei modelli che Birkestock vuole oggi proteggere dalle imitazioni), ma con una speciale tomaia in pelle realizzata da “scarti” di borse Hermès Birkin appositamente sminuzzati. Erano stati ribattezzati “Birkinstock” e stando a quanto avevano dichiarato all’epoca al New York Times i creatori, sarebbero stati realizzati su ordinazione fino ad esaurimento scorte, con un costo variabile tra i 34 mila e i 76 mila dollari.
Quella di MSCHF era solo l’ultima trovata di un brand che si stava facendo conoscere per simili interventi su oggetti popolari (un’altra erano le AirMax 97 customizzate con l’acqua santa, per intenderci) e a distanza di qualche anno l’intuizione di quella che era una provocazione rimane corretta: quanto siamo disposti a spendere per un oggetto di lusso? Se però MSCHF aveva giocato al rialzo, quotando a prezzi esorbitanti le proprie “creazioni” sulla falsariga di quello che qualche anno prima faceva Balenciaga (ricordate la versione in pelle della shopper di Ikea? Correva l’anno del signore 2017, un secolo fa), oggi sembra vero l’assunto opposto. In un momento in cui i prezzi della moda sono diventati, nella realtà dei fatti, ancora più esorbitanti di quelli che Balenciaga e MSCHF prendevano in giro, sono i falsi ad aver vinto la battaglia definitiva. Completamente sdoganati, liberi di essere esibiti, simbolo a loro volta di un’èlite che non è definita dalla RAL ma, viene da azzardare, dall’essere «cronicamente online». O dal non aver più né voglia né interesse per la rincorsa all’originale.
Ne è un esempio l’ultima reiterazione della Birkin, questa volta comparsa nientemeno che da Walmart, la celebre catena di supermercati americani che ne ha realizzato una sua versione da 80 dollari. La “Walmart Birkin”, com’è stata ribattezzata, è andata presto sold-out e ha provocato una bagarre online, come riporta The Cut, riaccendendo il sempreverde dibattito tra copia e originale, tra segnalatore di status sociale e oggetto ironico. Non è la prima volta che Walmart finisce al centro di queste dispute: lo scorso maggio si era infatti parlato molto del supermercato perché, a causa delle vie infinite e contorte degli stock invenduti, aveva finito per ospitare molti capi e accessori di lusso, provenienti dalla liquidazione di Matches. Anche in quel caso internet era impazzito: in che senso posso trovare un capo di The Row o Rick Owens nello stesso posto dove faccio la spesa tutti i giorni?
Dentro questa storia, o meglio questa collezione di storie dove coesistono collettivi pseudo intellettuali specializzati in post-branding, catene di supermercati e la buonanima di Jane Birkin, ci sono però molti dei nodi cruciali che oggi l’industria della moda non sa sbrogliare. La crisi del retail, tanto per cominciare, sia fisico che online, il conseguente crollo degli e-commerce e la difficoltà nel ridisegnarli in un’epoca in cui qualsiasi stupidaggine può essere ordinata in un click e arrivare pochi giorni dopo alle nostre porte dopo aver attraversato gli oceani su una di quelle navi container che si vedono traballare su TikTok con quel suono terrificante e ridicolo (hashtag #northsea), la sfiducia dei consumatori che hanno superato ormai da tempo l’ultimo ostacolo per liberarsi dell’egemonia dei brand, riscattando la validità sociale dei falsi, che TikTok ha ridefinito come “dupe”. Tutto è dupe o meglio di tutto esiste un dupe: fondotinta, scarpe, divani Camaleonda e Togo, specchi Ultrafragola, creme anti age, accessori per la cucina e per i capelli, persino delle persone e del loro stile.
Sul numero 56 di Rivista Studio, Arianna Cavallo aveva raccontato tra le altre cose l’Hermès game, ovvero come si acquista nella vita reale una vera borsa della Maison francese: un’operazione mica facile, visto che servono migliaia di euro di spese “iniziali” per poter accedere alle liste per una Birkin e spesso la prima che si riesce a comprare non è scelta dal cliente ma dal negozio, a seconda della disponibilità. Una logica della scarsità che continua a premiare Hermès ma che non è, evidentemente, applicabile tout-court al resto dell’industria, come la rottura che si osserva oggi dimostra. Al di là delle sofferenze del mercato del lusso nel 2024, con proiezioni ugualmente al ribasso per buona parte del 2025, è sempre più chiaro che è il cosiddetto “value for money” a essere completamente sparito dall’equazione, come rileva un recente sondaggio di Vogue Business. Perché investire i propri soldi in oggetti “trendy” dai prezzi spropositati quando quegli oggetti non sono più sinonimo di qualità, durata nel tempo e saranno presto sostituiti da qualcos’altro di altrettanto virale? La cultura del dupe, come quella del fast fashion, non è solo estremamente dannosa per l’ambiente e i lavoratori della supply chain globale, ma anche per la moda stessa, a causa della maniera permanente in cui ha modificato l’attitudine dei consumatori che nel loro inseguire i brand, il logo e il posizionamento che da essi sembrava derivarne, sembrano essersi dimenticati del perché quel brand lo desideravano in prima battuta. Non ci rimarranno nient’altro che falsi e forse è giusto così.