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Nella moda non ci sono solo i direttori creativi

Mentre in questi giorni si susseguono le indiscrezioni sui cambi di guardia di molti marchi importanti, non si parla mai di chi la visione di un direttore creativo la porta a compimento: il team, che è sempre stato centrale nel discorso sulla moda.

di Giorgia Feroldi

Cos’hanno in comune Tom Ford, Dries Van Noten, Chanel e Burberry? No, non è solo l’essere stati i protagonisti nelle ultime settimane del “gioco” delle nomine dei direttori creativi che cambiano sempre più velocemente: condividono tutti, come la stragrande maggioranza dei brand, i nomi appartenuti ai fondatori del marchio stesso. E di controversie, quando uno di questi marchi nomina un nuovo direttore creativo, ne nascono sempre parecchie. Eppure – mentre cerchiamo di carpire informazioni sui social o tra gli addetti ai lavori – la moda non è mai stato l’atto di un singolo, ma quello di un collettivo. Lo spiega bene, parlando nello specifico dell’arte, anche il sociologo Howard Becker in Art As Collective Action, quando sostiene che la produzione artistica richiede non solo il singolo artista, ma un’intera rete di persone coinvolte. Allo stesso modo, la produzione di una collezione di moda non si basa sul solo stilista o direttore creativo, ma su un team di persone: modellisti, tagliatori, sarti e via dicendo. Così – lo dimostra anche la recente scelta di Dries Van Noten, che ha lasciato la direzione del suo brand eponimo in mano al suo consolidato gruppo di collaboratori interni – è sempre più evidente la centralità della collettività creativa nella direzione di future collezioni.

Eppure, quello di Dries Van Noten non è certo un approccio del tutto nuovo, solo meno discusso. D’altra parte, la nomina di un singolo scaturisce sempre più chiacchiericci rispetto al taciturno mandato di un team senza un volto specifico, tanto più quando a “guidare” la conversazione sui social sono account che hanno fatto del gossip il loro punto di forza. Anche a questo, d’altra parte, servono le assegnazioni di celebrità a capo dei brand. Non intendiamo, qui, mettere in discussione il talento delle star che arrivano alla moda tramite percorsi differenti – oggi la moda è un affare complicato, e come dimostra Pharell da Louis Vuitton, certe scelte ripagano – quanto quello di considerare chi realmente si nasconde dietro a un nome designato. Un cantante può portare un approccio differente, ma non è un caso se alla fine degli show sempre più direttori creativi si presentano con l’intero team al seguito, Pharell compreso.

Potrebbe sembrare di parlare di un’asse opposta e antitetica quando vengono promossi a direttori creativi alcuni fedeli (e, inizialmente, sconosciuti ai più) designer degli uffici stile interni ai brand. È il caso di Sabato De Sarno da Gucci, che nonostante le critiche prosegue con coerenza il suo percorso, dopo aver lavorato per Valentino per più di tredici anni. Ha avuto un destino simile anche Seán McGirr che, dopo anni a capo del ready to wear di JW Anderson fra gli altri, è oggi direttore creativo di McQueen non senza polemiche, dopo una prima sfilata che non ha avuto l’effetto sperato. Già alla sua nomina, però, c’era chi si era lamentato del fatto che a occupare certe posizioni fosse sempre lo stesso tipo di persona: bianco, europeo, uomo. E così è stato, più recentemente, anche per Adrian Appiolaza: le burle di Moschino sono sotto la sua lente d’ingrandimento, dopo un lungo curriculum che comprende anche l’esperienza da Loewe, al fianco di Jonathan Anderson. E se nel lavoro di tutti questi designer è spesso possibile rintracciare le loro esperienze passate è un fatto che conferma come il lavoro stilistico non sia mai esclusivamente il frutto di un singolo, ma il risultato di più mani e influenze, quelle di tutte le persone che a quel progetto ci lavorano. Ed è addirittura inevitabile, forse, portare con sé parte dell’eredità formativa che ha costruito il passato di ognuno di loro. Noi lo scopriamo ora: perché c’è un’attenzione spasmodica attorno alle figure dei direttori creativi e perché mai come in questo momento storico le immagini delle collezioni di moda vengono viste, ricondivise e commentate.

La scoperta da parte della generazione Z di John Galliano ne è una delle tante dimostrazioni: la sfilata Artisanal Primavera Estate 2024 di Maison Margiela dello scorso gennaio ha, infatti, permesso ai più giovani di andare a spulciare nel passato del designer. Fra caroselli social che lo trasformavano in una novità del sistema moda e storie di chi ha vissuto il suo Dior d’inizio millennio che ne ricordavano le similitudini, Galliano resta nel frattempo sospeso a mezz’aria tra un rumour e l’altro. Gli stessi pettegolezzi riguardano anche Pierpaolo Piccioli, che ha recentemente lasciato Valentino e si racconta potrebbe riprendere l’esercizio creativo da Givenchy, in un testa a testa con Sarah Burton che invece esce da McQueen. Lo stesso Valentino – oggi in mano a Alessandro Michele – ha collezionato numerose postille social con la collezione Resort 2025 arrivata in digitale e a sorpresa durante l’appuntamento menswear milanese di giugno, di nuovo divise fra chi rispolverava il passato del brand e chi quello del designer.

Tornando a Becker, era sempre lui a scrivere di come le innovazioni artistiche si verificano quando gli artisti scoprono mezzi alternativi per assemblare le risorse necessarie. Se la cooperazione all’interno di un team viene mediata dall’uso di convenzioni artistiche, la cui esistenza rende la produzione del lavoro più facile e l’innovazione più difficile, potremmo allora introdurre il tema dell’intelligenza artificiale. Come spiega in un recente articolo Business of Fashion, è l’approccio che sta seguendo Norma Kamali, designer americana pioniera della democratizzazione della moda, soprattutto tramite la tecnologia: fra le altre cose, è stata la prima a sviluppare un suo store online servendosi della piattaforma di eBay e, già nel lontano 1996, ha abbandonato le sfilate fisiche in favore di presentazioni digitali. Oggi, a settantotto anni, Kamali continua a dedicarsi alle innovazioni a metà fra moda e tech e sta, così, “insegnando” a un sistema di AI a replicare il suo approccio al design, in modo che quando arriverà il giorno in cui si ritirerà dalla sua azienda, la sua eredità creativa verrà portata avanti. Le sue intenzioni sono quelle di non snaturare il brand mantenendo un livello di creatività non ripetitiva e allo stesso tempo contemporanea, a supporto del team interno che continuerà a seguire le collezioni. Così, aspettando la collezione di Chanel disegnata dall’ufficio stile che sfilerà il prossimo settembre o a Off-White che arriva a New York con lo stylist Ibrahim Kamara promosso a direttore creativo dal team interno del marchio, ricordare del valore della collettività nella moda è un esercizio necessario. Se non altro, per ricordarci che quest’industria non è mai stata una monarchia, e mai potrà esserlo.

In apertura: Dries Van Noten saluta il pubblico dopo il suo ultimo show, 22 giugno 2024. Photo by Francois Durand/Getty Images