Cultura | Libri
Katja Petrowskaja racconta le storie delle foto trovate per caso
La foto mi guardava, il nuovo libro dell'autrice tedesca-ucraina, è una raccolta di racconti dietro certi scatti trouvée: archivi di famiglia, Polaroid, o immagini più famose.

Per un gioco di specchi ci sono dei libri che ti guardano. Dalla loro copertina ti osservano e sembrano chiamarti. Sommessamente o ad alta voce. Ognuno poi risponde alle sollecitazioni che sono sue proprie. Debolezze, somiglianze, aspirazioni che spesso conducono a scelte sia di rifiuto o customizzazione che culturali. Ricordo, ad esempio, di essermi messo all’ansiosa ricerca della prima edizione Einaudi di Nemico, amico, amante di Alice Munro (poi trovata su Maremagnum) sulla cui cover campeggiava una foto per me molto attrattiva, sostituita poi nella versione tascabile. Era diventato discriminante il contenitore a dispetto del contenuto? Sì.
Apprezzerete, spero, la mia onestà estetica, ma spesso il packaging è mezzo libro e addirittura mezza premessa d’acquisto e non ci cascano solo i lettori deboli, anzi. Viviamo in un’epoca in cui la visione, immagine e correlato conseguente immaginario, si sono messi in testa a tutti i sensi. Siamo quello che vediamo. O, meglio, siamo il modo in cui vorremmo vederci o, più ancora, essere visti. Tornando all’editoria, chi si destreggia con sapienza tra l’arte della confezione e delle copertine – ti vendo il libro che so che tu vuoi che ti rappresenti anche esternamente (e se forma e contenuto si autocitano e rafforzano non è senz’altro secondario o ininfluente) – è senz’ombra di dubbio Adelphi (seguono Sellerio e Iperborea e, più recentemente, NN, Utopia, Blackie, Settecolori). Il libro di Katja Petrowskaja, recentemente uscito per l’editore milanese, La foto mi guardava, nella traduzione di Ada Vigliani, non fa difetto e ci porta a bomba sul tema dell’immagine. Essendo non tanto un libro di ecfrasi ma un’ecfrasi in sé. Ovvero, se sono ecfrasi i libri che contengono immagini raccontate a parole, qui i testi raccontano delle immagini scelte in un rapporto uno a uno che quasi rende il testo didascalia.

Nel caso del libro della scrittrice, ucraina d’origine ma tedesca di lingua, si tratta di foto trouvée in senso stretto o quasi (molte sono frutto di commerci che avvengono nel mercato delle pulci berlinese di Mauerpark, di cui l’autrice racconta: «Ammucchiati in disordine ci sono interi archivi di famiglia, fogli sciolti o radunati in raccoglitori, che per ignoti motivi i loro legittimi eredi hanno perduto»), o in senso lato (vedi le Polaroid di Berlino) o effetto di una ricerca che non ne toglie la serendipità, come la seconda foto del libro che mi colpisce più di altre. Questa mostra in una posa seduta, stile foto di famiglia, due signori azzimati e anziani e allegri e il loro nipote – o forse è un figlio? – seduti al fianco una ragazza più grande di quest’ultimo, nuda. L’unica a non guardare l’obbiettivo, e quindi noi, ha un’aria avulsa come fosse marziana («Ha un aspetto così innocente perché è fedele alla sua trasognatezza?») e insieme incantata. Il giovane fotografo Lázló Török per questa foto aveva vinto nel 1973 il concorso World Press Photo. Incuriosito, cerco un po’ in giro e scopro che Török aveva 25 anni all’epoca, e nel presentare l’immagine che rivela essere prodotta nella casa in cui viveva con i suoi usando modelli e con la tecnica del dagherrotipo scriveva: «Sono molto interessato alle relazioni umane, alla posizione e al ruolo dei miei coetanei […] In questa immagine ho voluto richiamare l’attenzione sui diversi modi di pensare alle generazioni». Il segreto della fotografia non è la verità, scrive dal canto suo nel libro l’autrice, ma la concepibilità. E sulla concepibilità mi sono interrogato. Ho immaginato che l’autore-fotografo volesse parteciparci l’emozione felice dei due vecchi di aver portato il rampollo all’iniziazione pagata dell’uscita dalla pubertà. Quale altro set paradossale poteva aver messo in piedi, altrimenti?

Sono catturato anche da altre foto – la babuska volante del Caucaso, la Venere dorata scampata a qualche naufragio di migranti – e che bello ritrovare la mia amata Francesca Woodman e la sua Leda e il cigno – Petrowskaja si interroga sull’assonanza tedesca Leda e Leben. Mi appassiona la storia dei libri-film, i flipbook dei vagabondaggi di Volker Gerling, e il Catalogo dei Gesti della francese Natacha Nisic, la Wunderkammer di Ruth e Peter Herzog, una delle più grandi collezioni fotografiche private esistenti al mondo.
Uno dei racconti più belli è autobiografico e come in un film di Antonioni prova a capire se l’autrice sia l’opera riuscita di una sevizia calligrafica. Vittima della “destrorsità”. Lo scatto privato la ritrae in braccia al papà ma nel “blow up” dell’osservazione ripetuta e attenta emerge la verità: non era mancina, né vittima dell’anatema della cosiddetta “mano del diavolo” da correggere ed emendare. La scrittrice ci rimane quasi male della mancata vessazione. Un aereo bianco giace nella neve dell’ex-URSS (la foto è tratta dal volume di Danila Tkachenko, Restricted Areas. Relitti di un’utopia), e la scrittrice annota: «Nel mondo di queste foto regna il silenzio postumo. È arrivata l’èra glaciale. Il bianco conserva gli oggetti per l’eternità. E gli oggetti diventano l’idea di se stessi, pura essenza, come se la loro esistenza fosse indelebile».

Ma eccoci arrivati alla fine – per paradosso alla copertina del libro (una foto di Maya Deren, fotogramma di un cortometraggio sul suo valore sorgivo come regista), al suo occhiolino strizzato al me lettore o acquirente – la lunga dida s’intitola “Esorcista nel tempo”. Inizio a leggere: «Una donna è alla finestra. Nella sua stanza. È sprofondata in se stessa. D’una bellezza magica. Attende il futuro, ricorda il passato? Gli occhi sono puntati su qualcosa, tranquilli e un po’ diffidenti. Le mani toccano il vetro – un confine nettamente percepibile, che appare tuttavia confuso e fragile. Il mondo trema sotto la punta delle sue dita. Intorno a lei si produce un movimento leggermente increspato, come se la donna toccasse l’acqua, non il vetro. Il mondo esterno si fonde con il suo mondo interiore». Ecco perché le copertine dei libri ci catturano: sono l’anticipazione di un racconto e racconto in sé. Una premessa-promessa irresistibile. Certo, tradirla sarebbe un problema.