In Europa si sta diffondendo il Melonicore

Le elezioni europee hanno confermato il "melonismo" come una tendenza che tutte le destre cercano di seguire. Tanto che pure i leader di questa parte politica, da Abascal a Orbán e adesso anche Le Pen, riconoscono ormai il primato italiano.

12 Giugno 2024

Nei Figli sono finiti Walter Siti scrive che «Giorgia Meloni è astuta e attende paziente la fioritura dei governi di destra in Europa». Finito lo spoglio elettorale si può dire che Siti ha sia ragione che torto: Meloni attende la fioritura del giardino dell’ultradestra, questo è certo; ma attende come il giardiniere appassionato di Rudolf Borchardt: con la consapevolezza che la fioritura del giardino dipende da lei. Cosa confermata da Marine Le Pen che ha detto che il compito di «proteggere» la destra europea da se stessa – divisioni, differenze, contraddizioni, rancori, rivalità – spetta proprio a Meloni.

Questa di Le Pen può sembrare la furbata di una che crede di saperla più lunga e vuole bruciare un concorrente. Potrebbe essere così, ma alle elezioni europee di cinque anni fa, quando la Lega stava al 34 per cento, era il primo partito d’Italia e governava il Paese in quel momento di surrealtà passato alla storia come governo gialloverde, Marine Le Pen non si era mai sognata di affidare a Matteo Salvini la cura del giardino (con buone ragioni: immaginate i leader della destra europea che ascoltano uno che parla dei differenti rischi ai quali le persone si espongono rifacendo la veranda, la mansarda, il sottotetto, la cameretta, la porta finestra, il bagnetto oppure drogandosi). La differenza principale tra adesso e allora è questa: Salvini non è mai stato niente più che un fenomeno passeggero, Meloni è invece riuscita a diventare una tendenza politica che tutte le destre radicali d’Europa più o meno esplicitamente dicono di voler seguire. Meloni “si porta”, il Melonicore si diffonde.

Se è vero che anche Meloni le sue influenze internazionali le ha avute (Steve Bannon sarà orgoglioso di lei, in questo momento), è vero anche che queste influenze non sono mai degenerate in imitazioni, per non dire in contraffazioni. Meloni è diventata la sua stessa tendenza, ha elaborato la sua personale estetica, facendosi così un prodotto “glocal” che tiene assieme l’eredità a chiilometro zero del Msi di Almirante e la spinta globalizzatrice dell’Academy for the Judeo-Christian West – detta anche “Gladiator School” – di Bannon, appunto. Ma ora le esportazioni del prodotto Meloni cominciano a farsi importanti: a scorrere il profilo Instagram e quello TikTok di Jordan Bardella si vede succedere quello che in Italia abbiamo già visto succedere. Il possibile prossimo Primo ministro francese sta sui social proprio come ci sta Meloni: serioso, incazzoso, istituzionale, populista, a disagio quando deve cedere alle necessarie gag alle quali anche la politica deve cedere per tenere quieto l’algoritmo. Che Bardella segua il Melonicore lo si capisce anche confrontando il suo feed con quello del leader dell’altra destra francese, Eric Zemmour. Video in cui canta “(I can’t get no) Satisfaction” dei Rolling Stones, in cui assaggia il beaufort,in cui partecipa a rievocazioni dello sbarco in Normandia assieme a figuranti in blackface. Ricorda qualcuno, Zemmour. E infatti non se la passa tanto bene nemmeno lui.

La parola che più spesso si è attaccata al nome Giorgia Meloni in queste settimane è “kingmaker”. Ancora una volta Bannon ci aveva visto giusto, se oggi è a lei che si rivolgono quelli – Le Pen innanzitutto – che vorrebbero mettere assieme Identità e Democrazia e il Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, i due mucchi selvaggi in cui si sono sparpagliate le destre ed estreme destre europee in questi anni. Mateusz Morawiecki di Diritto e Giustizia (Polonia) e Adrian Axinia di Alleanza per l’Unione dei Romeni hanno già detto che il progetto è tanto difficile quanto necessario, e che a loro va benissimo Meloni o comunque sono d’accordissimo con quello che dice Le Pen, e cioè che va benissimo Meloni. Il sostegno di Santiago Abascal di Vox si dà per scontato. Orbán ha già detto che per lui Franza o Spagna (Italia) purché se magna: va bene tutto, pur di creare il secondo gruppo più numeroso del Parlamento europeo.

A maggio Abascal ha trasformato per un giorno Madrid nel quartier generale degli Avengers della destra mondiale: «Un grande raduno patriottico», l’ha definito. A Orbán è toccata la parte di quello che sbava contro l’ideologia gender, Milei si è preso l’onere e l’onore di un delirante monologo in cui ha detto che a lui e al resto dei Vendicatori lì radunati spetta il compito di salvare il mondo da quella «forza oscura, nera, satanica, disgustosa, atroce, cancerogena che è il socialismo». A ognuno la sua parte in commedia, insomma. Con l’unica eccezione di Meloni, che non a caso è l’unico Vendicatore di governo, la sola tra i presenti a guidare un Paese europeo (a parte Orban, ma l’Ungheria è appunto un fatto a parte, come dimostra il caso Salis). A Meloni il discorso istituzionale, ovviamente con l’immancabile rimando all’Aragorn del Signore degli Anelli: «Siamo alla vigilia di elezioni decisive. È giunta l’ora di mobilitarsi, di scendere in strada. È il momento di alzare la posta in gioco, il nostro compito è combattere fino all’ultimo giorno». Tutto sotto gli occhi attenti di Le Pen. Attenti nel senso di vigili, anche: Le Pen è abbastanza navigata da sapere che tutti i kingmaker sono sempre un po’ stronzi, e infatti non sono passati nemmeno tre giorni dalle elezioni e già si discute di Meloni che vuole che i suoi deputati al Parlamento europeo votino per un secondo mandato a Ursula von der Leyen. «Quella stronza della Meloni», si potrebbe dire. Resta però il fatto che è a lei, alla Meloni, che oramai tocca fare “il discorso serio”. Non che non condivida, o non abbia fatto anche lei in passato, lo sproloquio di Orbán contro l’ideologia gender o quello di Milei contro il socialismo. Ma non è più la parte di Meloni, questa, nella commedia della destra. Non c’è avanzamento di carriera più grande o evidente.

Anche se, come per tutti i trend nell’epoca di internet, la rilevanza del Melonicore si misura più nella riproducibilità del suo immaginario che nella diffusione delle sue pratiche. Una delle sorprese di queste elezioni europee è stato il seggio vinto da Afroditi Latinopoulou, 33enne greca leader di Foni Logikis. Sabato scorso Latinopoulou ha postato sui suoi profili social un video in cui tiene in mano un melone, “citazione” di quel video del 2022 in cui la stessa cosa la faceva Meloni per aggirare il silenzio elettorale. Ora, ci sono buone ragioni per credere che Latinopoulou non abbia capito lo scherzo di una che si chiama Meloni e che tiene in mano dei meloni. Ma ci sono buonissime probabilità che invece Latinopoulou lo scherzo l’abbia capito e non le interessi affatto quello ma solo l’immagine, il simbolo Meloni/meloni. Perché di un simbolo stiamo parlando.

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