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La locandina di Eddington, il nuovo film di Ari Aster, è un’opera d’arte, letteralmente Il regista presenterà il film in anteprima mondiale al prossimo Festival di Cannes, in programma dal 13 al 24 maggio.

2003, again

Pitchfork, per dirne sola una, ha urlato al capolavoro ma c'è anche chi pensa che il nuovo disco dei Godspeed suoni da subito troppo datato.

26 Ottobre 2012

Sono pochi i dischi per cui oggi si possa ancora spendere la parola “evento” senza apparire ridicoli o fuori luogo. Allelujah! Don’t bend! Ascend! dei Godspeed You! Black Emperor è uno di questi per almeno tre ragioni. 1) È apparso come un fulmine in un cielo senza nuvole, uscito dieci giorni dopo essere stato annunciato. 2) È l’album di un gruppo che possiamo a buon titolo definire storico e che ormai, a seguito di dieci anni d’inattività (intervallati da qualche sporadica apparizione live), un po’ tutti davano per “morto” 3) È un disco che ti riporta a un tempo in cui gli album erano pensati per durare più di una stagione all’interno di una playlist di iTunes.

Bene, ecco. Dunque: il paragrafo che avete appena letto è una decalcomania di una recensione di Pitchfork filtrata da Onda Rock e approdata su Rockit. In realtà mi è tornato utile per dare alcune nozioni di massima sulla materia ma quello che ho davvero da dire è che il nuovo disco dei GYBE mi ha deluso, abbastanza diciamo. Per chi non fosse avvezzo al tema, qui c’è il ripasso (cliccando i link viene meglio): i GYBE sono un collettivo piuttosto esteso di Montreal che, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, ha dato alle stampe una serie di dischi di prodigiosa musica strumentale, tuttora custoditi gelosamente dalle mie orecchie. In particolare c’è una canzone, Sleep, dal loro miglior album Lift your skinny fists like antennas to heaven che è in grado di trasformare una fila in posta in un ciclo epico, anche solo per la sua durata di 23 minuti.

Nonostante alcuni dei loro membri più influenti come Mauro Pezzente, si siano poi voluti dissociare dall’intero movimento («Non facciamo parte di nessuna comunità musicale»), all’inizio del 2000 i Godspeed erano probabilmente quanto di meglio poteva offrire la maturità “quasi mainstream” del post-rock. Univano come nessun altro minimalismo post-albiniano (v. Steve Albini) di alcuni gruppi d’inizio ’90 come Slint e Tortoise e un’attitudine “show-off “pescata dal progressive anni ‘70, alle ripercussioni melodiche degli scozzesi Mogwai. Di quel suono, è innegabile, i Godspeed erano i maestri, ed esso si attagliava perfettamente ai tempi in cui l’hanno battezzato, ovvero a cavallo tra la fine del decennio più asettico del novecento e la fase a dir poco critica apertasi col 2001. Il loro impasto musicale era così espressivo che ha dato vita a una serie di copy-cat, divenuti negli anni delle piccole franchigie nel demi-monde dell’indie americano, Explosion in the Sky, This will destroy you, per citarne solo un paio, ed era un contrappunto sonoro straordinariamente attuale degli anni che si stavano vivendo, il che va sottolineato due volte, dal momento che nella visione artistica dei GYBE, produzione musicale e coscienza storico/politica sono due momenti poietici inscindibili.

Ed è proprio per questo, forse, che la loro nuova opera mi ha in qualche modo deluso, perché mi è parsa priva d’attualità fin dal primo ascolto. È un disco che suona immediatamente datato. Mi aspettavo uno dei loro foschi e apodittici commentari musicali del contemporaneo ma la sensazione che invece mi ha trasmesso è stata ben diversa: l’impressione è che i Godspeed non abbiano preso coscienza di quali e quanti cambiamenti sono avvenuti nel mondo rispetto alla prima parte della loro carriera o che abbiano deliberatamente deciso di ignorarli. Allelujah! Don’t bend! Ascend! non sembra un disco prodotto e pensato per parlare del 2012 e al 2012. Sembra più una cosa tipo: «Ehi, scusate io sarei dovuto uscire nel 2003 ma poi inspiegabilmente tutti si sono dimenticati di me e invece guarda un po’… adesso qualcuno ha un mutuo da pagare!». E la cosa forse peggiore è sapere che è davvero così. Insinuazioni sul mutuo escluse, i due pezzi principali del disco, le due suite che ne giustificano l’ascolto e l’acquisto, Mladic e We drift like worried fire (rispettivamente di 19 e 20 minuti) sono nel repertorio live della band dal 2003, come sa qualunque fanatico di bootleg e semplicemente in questa sede vengono proposte in una versione più pulita e sottoposta a una cura proteica in fase di produzione. E qui arrivo alla seconda cosa che non ho amato né capito di questo disco: l’unico aggiornamento al loro sound, apportato dai GYBE, sembra essere l’aver posto una maggiore cura all’arrangiamento e alla post-produzione, col risultato che quel che dieci anni fa suonava ruvido, caldo ed evocativo oggi suona più che altro metallico, chiassoso e in definitiva frigido.

Che l’impianto originale dei due pezzi forti risalga a nove anni fa, peraltro si sente abbondantemente nella loro costruzione. We drift like worried fire è la classica robusta ed emozionante progressione melodica di matrice Godspeed, quella che tutti poi gli hanno copiato, e che cascasse il mondo loro sapranno sempre fare meglio di chiunque altro, ma appunto, proprio perché sei lo Chef e non un sgobbino di cucina qualunque, forse riproporre la stessa ricetta che nel frattempo hanno poi provato a cucinare altri trenta non è l’idea giusta al momento giusto, o quanto meno è un’idea un po’ pigra. Mladic, invece, è un blitzkrieg sonoro che si apre come una litania vagamente Kraut salvo poi diventare una progressione quasi metal con una sottotraccia di musica araba che poi assurge a tema prevalente mentre si insinuano echi strazianti che si concludono poi con una specie di “Crociata degli straccioni” di percussioni. È chiaramente una canzone concepita avendo negli occhi le immagini della fase calda delle due guerre, Afghanistan e Iraq, di inizio decennio. È davvero un bellissimo pezzo, nel 2003.

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