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‘O Duomo mio

Un estratto da Napoli stanca, edito da Solferino, che racconta la “napoletanizzazione” di Milano avvenuta negli ultimi anni.

02 Luglio 2023

Curata da Mirella Armiero, Napoli stanca è un’antologia appena edita da Solferino libri che coinvolge 17 scrittori nell’osservazione e nel racconto di una città chiacchierata e iper-rappresentata come Napoli, e tuttavia sempre oggetto di curiosità. Qui pubblichiamo un estratto di Cristiano de Majo in cui si parla di come, dalla pizza alla musica, Milano si sia napoletanizzata. Oltre a de Majo, gli scrittori coinvolti nel progetto sono: Enza Alfano, Maurizio Braucci, Fortunato Cerlino, Davide D’Urso, Peppe Fiore, Alessio Forgione, Diego Lama, Fuani Marino, Marco Marsullo, Gianluca Nativo, Benedetta Palmieri, Angelo Petrella, Edoardo Savarese, Gianni Solla, Massimiliano Virgilio, Athos Zontini.

Ci vivo da abbastanza tempo per ricordarmi quando Milano non era Napoli. Ho visto succedere tutto davanti ai miei occhi, anche se non saprei trovare un momento esatto, il big bang, lo spartiacque di questa incredibile mutazione. Cronologicamente è qualcosa che sta tra il successo di Liberato (più “Tu t’e scurdat’ ’e me” di “9 maggio”) e l’invasione della cosiddetta «pizza gourmet». A quel tempo vivevo all’Isola, tra i più famosi quartieri di Milano degli anni recenti, soprattutto perché tra i più radicali esempi di gentrification italiana. Il Bosco Verticale, la piazza Gae Aulenti, che è ormai meta turistica, con la fontana di luce e la Feltrinelli Red, le vetrine di Tesla e Dyson, sono solo la radice di una pianta piuttosto invasiva che si è poi estesa almeno fino alla fine di via Farini e alla fermata della metro Zara: prezzi delle case in ascesa costante, sostituzione delle botteghe storiche con ristoranti e pokerie, investimenti speculativi, una nuova classe di colonizzatori con maggiori capacità di spesa, preceduti dalle avanguardie della classe creativa prima che il metro quadro diventasse troppo caro, che ha rimpiazzato i vecchi abitanti, per la maggior parte appartenenti alla piccola borghesia milanese. Una storia che si ripete sempre uguale e che è stranota nelle capitali europee e americane (Hackney a Londra, Belleville a Parigi, SoHo a New York, solo per citare uno dei mille possibili quartieri della Grande Mela che hanno subito questo tipo di trasformazione), ma che è decisamente meno conosciuta in Italia, perlomeno con questa intensità.

Vuoi la grande quantità di proprietari di casa, vuoi una certa propensione legislativa alla tutela dell’inquilino, vuoi l’attitudine dell’italiano all’immobilismo, non si conoscono in altre città esempi paragonabili all’Isola. Si è sentito molto parlare del Pigneto a Roma negli ultimi dieci o quindici anni, ma dopo una vera emigrazione interna e l’apertura di locali ad usum creativi, il quartiere di Roma Est non ha visto arrivare né un fiume di capitali che l’hanno snaturato, né l’orda degli young professional che hanno preso il posto dei precari spiantati, collaboratori di start-up editoriali da dieci lettori o di piccole gallerie destinate alla morte. Napoli stessa ha subìto una graduale airbnbizzazione del suo centro storico, ma è una città nota anche per la sua resistenza a ospitare processi di trasformazione urbana, con strade, se non addirittura quartieri, che restano avvinghiate agli stessi cognomi che le abitano nei secoli dei secoli. Ed è noto che anche quella piccola onda che negli anni Novanta vide alcuni coraggiosi esploratori borghesi tentare una sorta di riconquista pacifica del centro antico si è poi infranta contro la difficile convivenza con gli usi e i costumi dei suoi radicatissimi abitanti storici.

Non vi starò dicendo nulla di nuovo, immagino, ma giusto per arrivare al punto: di città in città, la gentrification avviene seguendo tappe simili e soprattutto riproducendo stili e immaginari comuni, che prescindono dalle specificità locali. Una di queste, per esempio, è l’apertura (o la trasformazione) del salone da barbiere: cambiano i font (continua a essere usata, purtroppo, la grafica rétro invecchiata malissimo dell’era hipster), appare il famoso palo da barbiere rotante bianco, rosso e blu, compaiono servizi che nessun barbiere sano di mente si sarebbe sognato di offrire prima: tipo il bagno d’olio per la barba o il trattamento «calming» con asciugamano bollente. Altri segnali inquietanti: l’apertura di un’enoteca naturale, quella di un panificio di qualità, negozi di tatuaggi, vestiti o mobili vintage (pre-loved si dice adesso), almeno una galleria d’arte, e cocktail, tacos, e appunto poké, il famoso piatto hawaiano con riso e pesce, che ha sostituito nel vocabolario dei gentrificatori l’avocado toast. Quello che è successo all’Isola però non ha eguali e riscontri in nessun’altra città del mondo. E riguarda appunto Napoli e la napoletanità.

Superata la prima fase della gentrification, quella in cui il quartiere viene scelto dalle élite creative come terra vergine delle proprie emigrazioni, portandosi dietro i baretti, le micro gallerie d’arte, lo street food di qualità e tutti gli ammennicoli del consumo urbano cool, si passa generalmente a una seconda fase in cui gli investimenti riguardano attività decisamente più mainstream: fast food, ristoranti turistici, cocktail bar carissimi, catene. Ebbene, all’Isola, curiosamente questa seconda fase ha visto l’inarrestabile dilagare di una pandemia della napoletanità. Se non sbaglio, il primo segno di questa pandemia, diciamo il paziente zero, è stata l’apertura della pizzeria Assaje, credo intorno al 2016-2017, in piazza Segrino. Abbiamo così iniziato a vedere vassoi di paste cresciute esposti all’ingresso per essere offerti ai clienti in attesa impegnati in lunghe file per assaggiare la prima vera pizza napoletana del quartiere. Le paste cresciute da attesa sono la modalità adottata anche da una pizzeria aperta quasi in concomitanza a una cinquantina di metri da lì, in via Pollaiuolo, Trattoria Caprese. Questa me la ricordavo da Napoli, addirittura, essendo stato in passato un frequentatore di quella che suppongo sia la sua sede originaria, in via Luca Giordano, al Vomero; una pizzeria anche buona ma come ce ne sono decine, che mai avrei immaginato potesse trasformarsi in una «catena», con tanto di succursale nel quartiere più richiesto di Milano. Nelle strade inizia così a spandersi l’odore di paste cresciute – mi raccomando, non fatele raffreddare troppo all’aria, che diventano dure e immangiabili – e la parlata inconfondibile dei camerieri dei due locali, che iniziano a essere tanti e quindi non è impossibile, camminando per il quartiere, incappare nell’idioma che ti fa sentire a casa.

Siamo non troppo lontani dalla pandemia, quella vera, quando Napoli inizia a diventare di moda anche da queste parti. Posso testimoniarlo personalmente con l’aumento esponenziale di richieste di consigli (dove andare, cosa visitare, dove mangiare la – non ci crederete – pizza) che ricevo da amici o colleghi milanesi che vanno a Napoli per un weekend (ormai ho un documento Word che riciclo ogni volta); spesso gente che non c’è mai stata neanche una volta, o magari – grande classico – solo di passaggio per andare alle isole (isole, non isola). Ovviamente è solo una teoria confutabilissima, ma la birth of coolness di Napoli sta secondo me all’incrocio tra due fenomeni culturali, che sono il successo di Liberato (anzi LIBERATO) e il successo di Elena Ferrante. E se Gomorra, soprattutto la serie, qualche anno prima, aveva aggiunto livelli di fascino a una Napoli periferica e criminale, vissuta fino a quel momento solo come un cancro morale, Ferrante e liberato producono una nuova romanticizzazione della città in chiave contemporanea. I tuffi a Marechiaro ma con l’autotune. La saga familiare dei vicoli che però piace alle millennial che leggono Sally Rooney. Entrambi aggiornando quella storica dialettica tra alto e basso, in senso sociale e paesaggistico, borghesia versus popolo, collina versus mare, che è la vera e propria costituzione narrativa della città; nel video di “Tu t’e  scurdat’ ’e me”, girato da Francesco Lettieri, dopo i tuffi a Marechiaro, il ragazzo del popolo sale in collina nella casa della famiglia della ragazza borghese per quella che sembra una prima volta, una scena antica e quasi banale, che però ha una grande forza visiva e, appunto, lirica. Succede così che, per uno strano contrappasso – senza sforzarci di dimostrare dei rapporti di causa-effetto, che pure probabilmente ci sono – mentre i milanesi vanno a conoscere Napoli, Napoli continua a scavare silenziosamente sotto la superficie di Milano e a mangiare metri quadri e vetrine.

Durante la pandemia, in via Borsieri, la storica macelleria-gastronomia del quartiere, Il Bottegone, annuncia ai clienti la prossima chiusura per l’aumento del costo dell’affitto a circa ventimila euro al mese. La chiusura arriva qualche tempo dopo. E chi prende il posto del negozio? Una pizzeria napoletana, ovviamente. Anzi «la pizzeria». Quella di Gino Sorbillo, che in città ha già due succursali in Duomo e ai Navigli. Per me che sono un napoletano a Milano, c’è qualcosa di straniante nel vedere uno dei simboli dell’autenticità partenopea partecipare allegramente alla gentrification di Isola. Peraltro, anche dopo l’apertura di Sorbillo, questo surreale processo di pizzificazione del quartiere non si ferma.

Ci sarebbe da aprire per esempio una lunga parentesi su Rosso Pomodoro. Proprio sul concetto di Rosso Pomodoro, su quello che ha rappresentato e che rappresenta in chiave simbolica, ma sarebbe un altro pezzo. Quello che posso dire qui è che ne penso tutto il male possibile. Le sue vetrine e la sua atmosfera fake fioriscono a un certo punto a una decina di metri forse venti da Trattoria Caprese. E non basta, sboccia anche poco lontano, non più di duecento metri, Carmelina, un’altra pizzeria ristorante che sceglie saggiamente di differenziarsi dalla già discreta offerta di napoletanità con un tema più specifico: la Costiera. Memorabile la scalinata che porta al piano superiore, dove sul frontespizio di ciascuno scalino è inscritto il nome di una località: Amalfi, Positano, Maiori, Sorrento. E io mi ci fermo ogni volta, sentendo il cuore gonfiarsi quando leggo Nerano, la mia spiaggia di bambino, di cui ovviamente non mancano i famosi spaghetti con le zucchine, imitati ormai, e spesso male, non dico come la carbonara, ma quasi.

Più magico è il fenomeno dei cornetti ischitani, varianti giganti e imbottite fino al disgusto con creme multicolori, tra cui non manca ovviamente il pistacchio, opera di un bar che ha il caffè Passalacqua esattamente come Mexico, e forse è proprio una succursale di Mexico, ma non l’ho capito. Perché da Mexico invece i cornetti ischitani non mi pare che siano offerti, tanto che io non sapevo neanche della loro esistenza, prima di accorgermi delle file surreali che il sabato mattina si allungavano su via Traù, a qualche vetrina dalla pizzeria Assaje, dove le file sono però di sera, mentre qui file mattutine anche di mezz’ora per mangiare questo cornetto ischitano gigante. Ci sarebbe materiale per un libro di Saviano probabilmente, ma nella civile Milano nessuno sembra eccepire nulla, se non qualche folle isolato, che ogni tanto compare sul gruppo di quartiere Facebook dell’Isola, commentando l’apertura dell’ennesima pizzeria, con un «basta, vi prego, con le pizzerie napoletane».

A volte penso alle masse che dall’hinterland il venerdì sera e il sabato si riversano sull’Isola e mi chiedo se vengano qui per farsi un giro nella Milano più alla moda, come sembrava essere all’inizio, o se non abbiano semplicemente voglia di farsi un giro a Napoli, visto che ormai dista una manciata di chilometri da Baranzate o da Paderno Dugnano. Io personalmente non ce l’ho fatta più. Me ne sono andato dall’Isola. Ci sono molte ragioni e molte scuse, i prezzi degli affitti, il traffico, il casino del weekend, la dissoluzione della sua identità, ma a pensarci bene la vera ragione potrebbe essere quella che mi ha fatto scappare via da Napoli: della pizzification e di sentir parlare solo napoletano non ne potevo più. Ho avuto un brivido di terrore quando mi sono accorto, non molto tempo dopo il trasloco, che nella strada dove mi ero trasferito, in un quartiere a nord, ancora in gentrification fase 1, c’era un ristorante pizzeria napoletano, Il Tegamino. Però, lo ammetto, ci ho mangiato una pasta e patate leggendaria, di fronte a una bella gigantografia del golfo di notte dai colori irreali.

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