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Matthew Perry, l’amico ritrovato

Alcolismo, tossicodipendenza, colon esplosi, denti caduti, terapie, guarigione: storia di uno degli attori simbolo della tv americana degli anni Novanta, raccontata da lui stesso nel memoir Friends, Lovers And The Big Terribile Thing, appena uscito negli Stati Uniti.

07 Novembre 2022

Il problema di Matthew Perry è sempre stato l’eccesso di talento. Quando aveva quindici anni, scoprì di averne tre rari: uno per la recitazione, uno per il tennis e uno per il bere. Tutto il resto della sua vita è stato un tentativo di ridurre la lista a un talento soltanto, quello per la recitazione. In realtà, del talento per il tennis non sapeva che farsene già a quindici anni, quando decise di lasciare Ottawa e trasferirsi a Hollywood: pigro com’era, lo sapeva che il caldo californiano gli avrebbe fatto passare la già scarsissima voglia di sgobbare sul campo da tennis. E poi a Hollywood viveva suo padre, l’attore John Bennett Perry, l’uomo al quale Matthew deve la scoperta del suo immenso talento per il bere e la sua infinita propensione alle dipendenze. Come spesso accade tra genitori e figli, Perry Sr. ha trasmesso a Perry Jr. solo la parte peggiore del suo corredo cromosomico: a differenza di Matthew, John Bennett è un alcolizzato «high functioning» al quale basta una boccata d’aria fresca dopo una notte intera di liquori forti per tornare a essere perfettamente e completamente sobrio. Per Matthew, la cosa funziona diversamente. I sei vodka tonic che in quegli anni inizia a consumare come aperitivo non si limitano a essere soltanto «la parte migliore della sua giornata» ma diventano ogni parte della sua giornata: prima di iniziare a bere non riesce a pensare ad altro e dopo aver iniziato non riesce a fare altro. La scoperta dell’alcolismo è per Matthew la scoperta della solitudine autentica, ed è da questa condizione miserabile che il futuro Chandler di Friends scopre – e in parte sceglie – il suo talento: decide di fare l’attore perché nei momenti in cui i vodka tonic sembrano lontanissimi l’unico pensiero che gli si forma nella testa è «Perché non dovrei desiderare di essere qualcun altro?». E chi più di un attore è qualcun altro per la maggior parte del suo tempo?

Ora che di anni ne ha 53, Matthew Perry ha scoperto di avere anche un quarto talento: per la scrittura. L’1 novembre negli Stati Uniti è uscita la sua autobiografia, Friends, Lovers And The Big Terrible Thing, celebrity memoir tra i più attesi e commentati e apprezzati degli ultimi anni: la fama di Perry ormai lo precede e tutti si aspettavano molto dal racconto della sua vita. Perry ha scoperto un talento per la scrittura – il libro lo ha scritto davvero lui, nessun ghost writer è stato maltrattato durante la produzione dello stesso – però ha pure scoperto, per l’ennesima volta, di odiare se stesso e la sua vita: Matthew Perry sa scrivere e scrivere gli piace, solo non quando si tratta di scrivere di Matthew Perry, the big terrible thing, la grande cosa terribile. In un bellissimo profilo-intervista realizzato da Gq, ha raccontato che per necessità autoriale rileggeva le pagine che aveva riempito con gli aneddoti della sua vita come fossero l’opera di fantasia di un’altra persona. «Leggevo e piangevo, piangevo, piangevo. “Mio dio, questa persona fa la vita peggiore che si possa immaginare”. E poi mi ricordavo che stavo parlando di me». A Hollywood la vita di Perry la conoscono tutti, tanto che a un certo punto “la macchina” prova a fare a lui quello che prova a fare sempre con tutti gli irregolari, i maledetti, i devianti: spettacolarizzarli, trasformando la sofferenza in intrattenimento e il sofferente in un fenomeno da baraccone. Perry un giorno si ritrova a recitare in una sit-com Nbc intitolata Go On: interpreta un giornalista sportivo che viene costretto dal suo capo a frequentare la terapia di gruppo per superare il lutto della morte della moglie. Ovviamente i soldi servono a tutti e Perry la parte l’accetta, ma comincia a chiedersi a che punto, e perché, uno che aveva deciso di fare l’attore per rispondere alla domanda «Perché non dovrei desiderare di essere qualcun altro?» si sia ritrovato a interpretare quasi se stesso, a lasciare il set sul quale ha appena partecipato a una finta terapia di gruppo per raggiungere la clinica presso la quale deve partecipare alla vera terapia di gruppo.

È che Hollywood è poco più di un paese e tutti conoscono tutti e tutti sanno tutto di tutti. E come in ogni paese, le cose che più di tutte tutti vogliono sapere sono le malattie, le disgrazie, i fallimenti. Per dieci anni, Perry è stato uno dei volti più noti dell’intrattenimento americano, il protagonista della sit-com più popolare della storia della tv Usa: grazie a Friends è arrivato a guadagnare un milione di dollari alla settimana – tanto venivano pagati i protagonisti nelle nona e decima stagione, un milione di dollari a puntata per, rispettivamente, 24 e 18 puntate – a comprare ville da miliardario a Malibu, a uscire con Julia Roberts. Ma tutto quello di cui a Hollywood-paese si parlava negli anni del successo di Perry erano le misure esatte delle sue disgrazie. Nessuno è mai riuscito a fare una stima economica delle sue dipendenze, perché è difficile immaginare le finanze personali di un uomo che ingoia 55 pastiglie di Vicodin al giorno. Il Vicodin è un antidolorifico che Perry ha cominciato a prendere dopo un incidente sugli sci capitatogli durante le riprese di Mela e Tequila, l’inizio di una tossicodipendenza che lo costringerà a entrare in rehab per la prima volta a 26 anni – «non mangiavo, bevevo e vomitavo in continuazione – dietro gli alberi, dietro le rocce, nei bagni delle donne» – e a uscirne diciotto mesi fa, a 52 anni. Nel mezzo ci sono nove milioni di dollari spesi in varie cliniche e diversi programmi di disintossicazione, l’esplosione del colon a causa dell’abuso di oppiacei, due settimane di coma attaccato a un respiratore (in quelle due settimane, nella stanza con lui c’erano altre quattro persone: da quella stanza è uscito vivo solo Perry). A un certo punto il suo terapista cerca di fargli capire che se non la smette con l’ossicodone dovrà passare il resto della sua vita a cagare in una sacca per stomia. La minaccia funziona e Perry rimuove l’ossicodone dalla sua dieta tossica (restano il metadone, la cocaina e lo Xanax), ma il suo corpo perde letteralmente i pezzi. Una mattina mentre fa colazione addenta una fetta di pane con sopra il burro di arachidi e sente un tintinnio nel piatto. Gli sono caduti i denti davanti. Il dolore è micidiale ma lui non può prendere antidolorifici e non può bere, quindi si mette a fumare. Rimette, in realtà: grazie all’ipnosi era riuscito a smettere da quindici giorni, perché il suo medico curante gli aveva detto che se avesse continuato a fumare tutte quelle sigarette gli si sarebbero seccati i polmoni entro il sessantesimo compleanno. «La malattia e la dipendenza sono degenerative – spiega a un certo punto del libro – Tu invecchi e loro peggiorano».

Matthew Perry oggi è sobrio da un po’ ma non dice esattamente quanto. Abbastanza da essersi già abituato all’auto-imposizione di ordinare «una roba sana» dal menù del ristorante, non abbastanza da smettere di contare i giorni. Riguarda le foto di venti o trent’anni fa e dalle linee del suo volto ricava la sua storia clinica: quando era rotondo il problema era l’alcol, quando era scheletrico le pasticche, quando c’erano tagli e lividi vuol dire che le cose andavano particolarmente male perché non riusciva a stare dritto in piedi, cadeva e sbatteva la faccia per terra. Sente ancora nelle narici l’odore grazie al quale gli altri capivano che i problemi erano ricominciati: una volta, racconta, Jennifer Aniston gli disse che lei e tutto il resto del cast lo avevano capito «dalla puzza». Si chiede ancora «Perché non dovrei desiderare di essere qualcun altro?», ma ormai è abbastanza vecchio da avere una versione di sé che non esisterà mai e che vale come “qualcun altro”: si chiede quindi se gli sarebbe piaciuto essere il Matthew Perry libero dall’horror vacui, dai vuoti da riempire, dai buchi da tappare, dall’ossessione per la fama che secondo lui è stata la causa di tutto. La risposta non ce l’ha e, ammette, probabilmente non ce l’avrà mai: tutto quello che gli resta è la versione di sé che «sarebbe dovuto morire e che invece per qualche ragione è sopravvissuta […] Questa è la vita di chi è stato benedetto dalla grande cosa terribile».

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