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Perché conoscere in dettaglio i cluster può essere il modo migliore per contenere la pandemia

27 Ottobre 2020

Negli ultimi mesi, il Covid-19 ha mostrato come una piccola percentuale di persone possa essere responsabile di una grande quantità di infezioni, e che allo stesso tempo molti non contagiano affatto. Nei dormitori, ristoranti, navi, case di cura, ospedali, carceri, il virus ha dimostrato di essere particolarmente incline ad attaccare gruppi di persone strettamente connessi e vicini. Su Science a maggio, il corrispondente tedesco Kai Kupferchimdt spiegava che una simile caratteristica poteva suggerire agli esperti i luoghi da monitorare più strettamente (il tutto sta nell’arrivare per tempo, prevedendo prima il fattore di rischio legato ad alcune situazioni). Di questo fattore di dispersione, il “fattore k” come l’hanno chiamato gli scienziati, che descrive quanto una malattia si aggrega in gruppi detti in inglese “cluster” (più basso è il k, più la trasmissione viene da un piccolo numero di persone), è tornato a parlare El País, in relazione alle nuove chiusure che si stanno applicando in Europa.

La verità «è che in Spagna la stragrande maggioranza dei casi di Covid-19 non è stata collegata a nessun evento o focolaio noto», scrive il giornale. Alcune ricerche come quella della London School of Hygiene & Tropical Medicine, o un recente studio pubblicato su Nature, indicano che pochi eventi (come un coro, o una riunione aziendale scarsamente ventilata) e poche persone malate (magari persone con un’elevata carica virale) sono responsabili di gran parte delle infezioni. Si stima che l’80 per cento delle trasmissioni sia prodotto solo dal 10 per cento al 20 per cento dei casi.

Sempre più studi quindi sottolineerebbero l’importanza dei cluster, ovvero dei gruppi di persone da cui hanno origine i contagi, piuttosto che dei luoghi idealmente deputati all’assembramento. Se si riuscisse a conoscere la natura di questi gruppi di persone, la motivazione della loro contagiosità, scrive El País, si potrebbe forse combattere la pandemia in un modo diverso: evitando di chiudere locali indistintamente, ma conoscendo meglio i focolai e proponendo quindi un altro modo per monitorare i casi, «due cose che la Spagna e parte dell’Europa non sta facendo».

Il Giappone, per esempio, è uno dei Paesi che ha concentrato la propria strategia sull’identificazione dettagliata di ciascun cluster. Ha avuto alti e bassi sulla sua curva, ma il peggior “picco” di casi confermati sarebbe simile al periodo più mite dell’epidemia in Spagna. «Con tutti questi problemi di tracciamento, il massimo che si può fare è confermare idealmente che c’è maggior trasmissione nelle case, nei ristoranti, negli uffici con le finestre chiuse, senza però essere davvero in grado di quantificare l’importanza relativa di ciascuna fonte di trasmissione», afferma Miguel Hernán, professore di epidemiologia all’Università di Harvard. «Un buon sistema di tracciamento sarebbe uno dei migliori investimenti economici per sapere quali attività siano più o meno sicure. Così da non vietarle tutte».

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