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RIP 2018

È solo dopo la morte di un artista che possiamo davvero valutare la sua opera? I morti famosi dell'anno e cosa significa ricordarli.

27 Dicembre 2018

Quando, come d’abitudine, Spotify mi ha comunicato quali erano le mie canzoni preferite del 2018 (perché Netflix o Amazon non facciano qualcosa di simile, tra l’altro, non lo capisco. Perché non ci comunicano cosa abbiamo visto o cosa ci abbiamo messo tanto a concludere, qualcosa come hai impiegato tre giorni per finire Roma, o due mesi per questi miseri otto episodi di Sharp Objects… potrebbero attribuirci un sacco di intenzioni e sono certo che le vedrebbero condivise sui social con gioia, invece di tenersi strette le informazioni solo per profilarci per la pubblicità o per studiare cosa proporci in futuro) ho scoperto che il pezzo più sentito del mio anno è stato “Moonlight” di XXXTentacion – un cantante scomparso il 18 giugno 2018.

Per chi, come me fino al diciotto giugno duemiladiciotto, non sapesse chi sia stato XXXTentacion, stiamo parlando di un rapper americano morto durante una rapina a poco più di vent’anni. Nonostante la sua vita sia stata così breve, chi ne capisce sostiene che abbia avuto un impatto significativo sulla musica mentre chi legge le pagine Wikipedia o qualche articolo resta stupito dal notevole elenco di controversie in cui è rimasto coinvolto nello stesso brevissimo lasso di tempo. Carcere, risse con altri rapper, episodi di maltrattamento, canzoni sulla malattia mentale, una continua ansia di esprimersi a scapito di qualsiasi idea di ragionevolezza. “Moonlight” non è neanche uno dei suoi brani più popolari, ma è una di quelle canzoni che, per caso, ti restano attaccate e l’ho ascoltata fino a riconoscerne ogni sfumatura e passaggio, e riascoltata, come capita sempre, fino ad averne noia. (Non mi ricordo più perché quando accade il miracolo di trovare una cosa che ci coinvolge profondamente decidiamo consciamente di rovinarcelo il più in fretta possibile e spremiamo una canzone fino alla noia).

“Moonlight” non è l’unico frutto di giornate spese a rileggere il patrimonio artistico di chi ci ha lasciati quest’anno. Se non fosse scomparso Carlo Vanzina – 8 luglio – e non avessi letto un coccodrillo particolarmente sentito e riuscito non mi sarei accorto di quanto era preciso Le finte bionde, non avrei rivisto Il Mestiere delle Armi che dico essere uno dei miei film preferiti, sempre, ma che non rivedevo da dieci anni, quando se n’è andato Ermanno Olmi – 7 maggio, e non avrei neanche colto l’occasione per mostrare a dei bambini all’inizio giustamente dubbiosi, ma poi soddisfatti Oceano solo perché era morto Folco Quilici – 24 febbraio – e l’avevo registrato dalla tv.

Una scena da Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi

Ci si chiede ogni tanto: perché la tv non trasmetta i vecchi film di Milos Forman – 13 aprile – o di Neil Simon – 26 agosto – o dei Taviani – Vittorio, 15 aprile – se non quando muoiono? Ma la risposta è semplice e la conosciamo già: perché se non morissero non li guarderemmo. Certe cose, della morte, le poche che abbiamo compreso, ce le siamo dette migliaia di volte. Più cerchiamo di nasconderla e far finta che non sia una possibilità e più, quando si rivela invece possibile, ci atterrisce. Credevamo di averla nascosta e dimenticata, con la tecnologia, la scienza e la tecnica, credevamo di averla allontanata ed esorcizzata e invece c’è ancora. E affrontarla dedicando il nostro interesse a chi ci ha lasciati ci fa sentire meglio.

Poi, più prosaico, la morte tiene in piedi molti conti, persino la morte di un’oscura comparsa di una serie tv degli anni ottanta porta con sé un carico di affetto che in termini di condivisioni social e relativi clic vale molto di più di qualsiasi approfondimento sulla manovra finanziaria. E così il copione si ripete identico. La morte è una vetrina per i vivi, ti fa concedere finalmente quell’intervista anche se non hai nulla da promuovere, ti fa apparire magnanimo quando riconosci la grandezza di chi non c’è più, anche se ci arrivi raccontando un episodio di cui sei tu il protagonista e il defunto è ridotto al ruolo di spalla capace, ma pur sempre spalla. Il ricordo di tizio fatto da un famoso batterà sempre il ricordo ben fatto di tizio fatto da non famoso, quando diventerà un dato di fatto per tutti non smetterà di essere penoso, ma almeno smetterà di risultare stupefacente. Ma le sappiamo già tutte queste cose. Ce le dimentichiamo e ce le ricordiamo ogni volta che capita a una persona di cui ci interessa un po’ meno e, allora, ci pare che gli altri esagerino.

Non esagerano. Non esagera mai nessuno. Non esageravano neanche le signore che venivano pagate per piangere e strapparsi i capelli ai funerali figurati se esagera qualcuno per due status. Il morto giace e il vivo si dà pace dice un proverbio che ripetiamo come se fosse un proverbio di contadini e non un verso di Euripide. Siamo ancora a questo e però qualcosa di nuovo c’è lo stesso. C’è che la quantità di intrattenimento a disposizione, nuovo e vecchio è talmente fuori dalla nostra portata, talmente schiacciante che la morte di un artista ci angoscia e allo stesso tempo ci fa dire: adesso possiamo davvero valutare la sua opera. Adesso possiamo finalmente dire la verità. Come se la vita debba per forza velare con una bugia o una diminuzione ciò che sentiremmo. Mentre solo con la morte ci rendiamo disponibili all’ascolto. Quanto erano belle le poesie di Pierluigi Cappello che ho letto solo quest’anno, alcune le ho perfino imparate a memoria senza volerlo – perché non avevo creduto potessero essere belle prima che morisse? E Kitchen Confidential di Bourdain che ho letto solo da poco, perché prima pensavo, nella mia ignoranza, fosse solo l’ennesimo libro di cucina? Che solo quando qualcosa di manca ci accorgiamo di quanto contasse è l’ennesima espressione del senso comune, fastidiosa, stantia, da cui, però, non riusciamo comunque a liberarci. E finiamo travolti dalle nuove cose e ci ricordiamo tardi che era meglio ricordarsi di quell’altra.

Kitchen Confidential di Anthony Bourdain, pubblicato per la prima volta nel 2000

Forse per la stessa ragione ormai andiamo matti per gli anniversari, qualsiasi, di qualunque tipo, perché sono come la morte, ma senza sofferenza. Ci permettono di ammettere che un film, un libro o un episodio ci hanno segnati, che sono importanti, fondamentali, capolavori o anche solo ricordi affettuosi, ma senza aspettare tragedie. E c’è anche un altro aspetto. Che non riguarda solo il desiderio di affrontare carriere complete come fossimo recensori di vite. C’è la nostra sfiducia nel futuro. Una sfiducia che investe non solo chi disistimiamo che, vabbè, ci starebbe, ma perfino chi stimiamo o, addirittura, amiamo. Persino Tom Wolfe – 14 maggio, persino Bertolucci – 26 novembre, ci dispiace immensamente che siano morti, li vorremmo sapere vivi, il più felici possibili, ma persino del fatto che loro possano essere di nuovo capaci di produrre un’opera che ameremmo quanto abbiamo amato Novecento o il Falò delle Vanità, in questo non ci crediamo. Pensateci, anche i più bravi, anche i migliori di noi, in futuro non saranno grandi quanto lo sono già stati. Perfino loro, ma non solo loro. Non lo crediamo possibile. Forse è questo che rende i nostri lutti sempre più intollerabili, sempre più condivisi e raccontati. Se ne vanno delle cose belle e non speriamo che ce ne saranno altre.

Così anche quando ci lascia Philip Roth – 22 maggio, diventa simile a quando ci lascia Dolores O’Riordan – 15 gennaio. Cosa hanno fatto i Cranberries in questi ultimi quindici anni in cui non ci siamo accorti di loro? Come ha fatto a vivere sapendo che non avrebbe mai rifatto una “Zombie”? Ma cosa ne sappiamo noi che una “Zombie” non la faremo mai? Così riascoltiamo “Linger” e pensiamo al tempo passato da allora. Se lei o noi siamo gli stessi di quando ascoltavamo “Dreams”, se il tizio che la cantava fingendo di conoscere le parole ci appartiene ancora, siamo ancora lui o non c’entriamo più nulla con lui, gli assomigliamo solo, siamo invecchiati e basta.

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