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Pete Buttigieg è l’unicorno dei democratici?

L'annuncio del più giovane candidato alle presidenziali del 2020 raccontato da un "watch party" a New York.

di Simona Siri

Pete Buttigieg con il marito Chasten Glezman all'annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2020, South Bend (Indiana). Foto di Scott Olson/Getty Images

C’è l’oftalmologo di mezza età che lavora al Mount Sinai con la moglie. C’è l’insegnante gay sulla sessantina. Ci sono un paio di studenti, c’è un tizio che lavora per il sindaco Bill de Blasio, c’è una ballerina classica che ha appena terminato le prove al Lincoln Center, ci sono un proprietario di bar, un imprenditore con la sua bella start up, due immigrati, una insegnante di ginnastica. Varia umanità newyorkese riunita di domenica mattina in un bar dell’Upper West Side per assistere a un momento potenzialmente storico: l’annuncio ufficiale di Pete Buttigieg alla Presidenza degli Stati Uniti. Sì, negli Usa è abbastanza comune organizzare “watch party” a sostegno dei candidati, momenti in cui potenziali simpatizzanti e futuri elettori di ritrovano per assistere in diretta al discorso, applaudire e commuoversi come sei vede nei film. Se non avete mai sentito il nome di Pete Buttigieg e non avete la minima idea di come si pronunci (aiutino: con la U normale e con le G dolci) non vi preoccupate: fino a due mesi fa non lo sapevano neanche gli americani, fatta eccezione per i cittadini di South Bend, la cittadina dell’Indiana in cui è nato e di cui è sindaco dal 2012. «Mi chiamano Mayor Pete. Sono il figlio orgoglioso di South Bend. E sono candidato alla Presidenza degli Stati Uniti». Applausi. E cori che scandiscono BUT-TI-GIEG sul ritmo di IU-ES-EI.

Momento storico, appunto. Intanto perché questo giovanotto dalla faccia buona e gli occhietti blu è il primo candidato apertamente gay e anche se non si presenta con una politica identitaria in-quanto-gay è pur sempre una piccola rivoluzione (per dire: sul sito della campagna c’è una foto di lui e il marito Chasten che si tengono per mano, sul palco dopo il discorso si sono abbracciati a lungo e Pete sempre dal palco si è riferito a lui chiamandolo “my love”). Secondo, perché – a 37 anni – è il primo millennial a voler occupare “the highest office in land”. Una spavalderia di cui è perfettamente consapevole e che infatti affronta nelle prime battute di un discorso a tratti perfetto, un incrocio tra visione del futuro, storia personale e grandi ideali e che, conferma oggi su Twitter la sua consulente Lis Smith «ha scritto da solo: non abbiamo uno speechwriter». «Riconosco l’audacia di candidarmi come un sindaco millennial del Midwest». Ancora applausi.  Più o meno tre settimane fa, quando ancora non era ufficiale la sua candidatura, Mayor Pete è stato ospite del night show di Stephen Colbert. Alla domanda del presentatore sul perché candidarsi a soli 37 anni, perché tanta fretta, e insomma va bene l’ambizione, ma non sarebbe meglio aspettare di avere un po’ di grigio nei capelli, a questa domanda Buttigieg ha risposto usando la regola numero uno dei politici consumati ovvero trasformare una debolezza in una forza: mi candido proprio perché sono giovane.

Un concetto che ha riproposto identico domenica nel discorso di lancio e che è l’idea di base di tutta la sua campagna, il fatto che esista – come ha scritto Alexander Burns sul New York Times – una coesione intellettuale e sociale tra la popolazione di elettori sotto i 40 anni e che solo una persona che condivide le loro esperienze e la loro mentalità possa affrontare i problemi comuni a questo gruppo. «Vengo dalla generazione che è cresciuta con le sparatorie a scuola come norma, la generazione che ha fornito la maggior parte delle truppe nei conflitti post 11 settembre, la generazione a cui toccherà convivere con i cambiamenti climatici, la generazione che sarà la prima in assoluto in America a uscire economicamente peggio rispetto ai nostri genitori». La generazione – questo non l’ha detto, ma lo aggiungo io – che entro il 2020 rappresenterà il 40% dell’elettorato Usa e che sarà la più diversa di sempre, la meno bianca. È a loro che si rivolge, ma non solo: veterano di guerra – ha prestato servizio per sette mesi in Afghanistan nel 2014, dove quando era già sindaco e si è messo in aspettativa – e profondo conoscitore di quel Midwest che è lo spauracchio di ogni candidato democratico, almeno fino a quando esiste il voto del collegio elettorale e vincere nelle coste non basta, Buttigieg ha un appeal che potrebbe estendersi oltre le élite liberal e potrebbe farlo con una politica che è ideologicamente opposta a quella di Trump: guardare avanti invece che indietro o, con parole sue, «per raccontare una storia che sia diversa da quella di Make America Great Again, e perché c’è un mito che viene venduto alle comunità industriali e rurali: il mito che si possa fermare l’orologio e spostarlo indietro».

E siccome anche i simboli sono importanti: quello della campagna è stato realizzato da uno studio grafico di Brooklyn e presenta uno sfondo giallo con la scritta PETE in grassetto blu stilizzata a forma di ponte, il Jefferson Boulevard Bridge a South Bend, trasformato proprio da lui in un’opera d’arte moderna grazie all’installazione di una struttura che di notte illumina il fiume St Joseph. Il ponte come metafora di un candidato che vuole essere il collante tra il passato e il futuro dell’America, tra il centro del Paese e le coste, tra i conservatori e progressisti. Se due mesi fa pochi americani sapevano chi fosse Pete Buttigieg, oggi sembra impossibile il contrario: dal fatto che parli sette lingue tra cui tra cui l’italiano e il norvegese (imparato per poter leggere i libri di un autore non tradotto in inglese) al nome dei due cani adottati insieme al marito – per la cronaca: Buddy e Truman – passando per il fatto che sia molto religioso (prima persona ringraziata sul palco: Padre Brian), di lui si sa ormai tutto grazie a una di quelle esposizioni mediatiche senza sosta che sanno tanto di innamoramento collettivo, ma che per come sono nate in fretta, altrettanto in fretta posso smontarsi (vedi alla voce Beto O’Rourke, ad esempio, fino a qualche mese fa il cocco della stampa).

Da qualche giorno, il faccione di Mayor Pete fa bella mostra di sé sulla copertina del New York Magazine. Nelle settimane scorse è stato ospite un po’ ovunque, dalla CNN alla trasmissione del mattino The View fino allo show di Ellen DeGeneres. In un sondaggio del 24 marzo in Iowa e in uno del 10 aprile in New Hampshire il suo nome è terzo tra i candidati democratici dietro ai due colossi Joe Biden e Bernie Sanders e davanti a Kamala Harris e a Elizabeth Warren, con la sua campagna ha già raccolto 9 milioni di dollari. Come si dice in questi casi: la strada è ancora lunghissima, ma nessuno può negare che sia un’ottima partenza. Lunedì 15 aprile, il giorno dopo l’annuncio ufficiale, Buttigieg è stato ospite su MSNBC del programma politico di Rachel Maddow, giornalista gay molto amata dai liberal. In uno dei momenti più toccanti e intimi della lunga intervista, i due si sono scambiati storie sui rispettivi coming out, per Maddow avvenuto presto, subito dopo l’Università, per Buttigieg molto tardi, solo quattro anni fa, quando da sindaco di South Bend cercava la rielezione al secondo mandato, ottenuta poi con più dell’80% dei voti. La stampa Usa ha definito questo scambio televisivo come una di quelle cose che solo tre anni fa sarebbe stata inimmaginabile e che invece oggi è normalità, alla faccia del Vice Presidente Mike Pence, con cui Buttigieg è in polemica dialettica da qualche settimana. È ovvio che non basta essere gay, oltre che colto, di bell’aspetto, veterano, millennial, figlio di immigrati, sindaco, amante dei cani e conoscitore dell’America rurale per diventare Presidente. O forse invece sì? Come qualcuno ieri ha scritto su Twitter: quando un Unicorno si candida alla Presidenza Usa, be’ si vota l’Unicorno.