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Come si sceglie la parola dell’anno?

Abbiamo assistito alla votazione della American Dialect Society per scegliere una parola in grado di riflettere e plasmare la contemporaneità.

di Andrea Beltrama

All We Have Double Line è un'opera realizzata da Tim Etchells per l'Onassis Cultural Centre di Atene nel 2016 (courtesy of Ioanna Chatziandreou)

Lo Sheraton di Times Square. Una sala enorme. Sei schermi. E quasi trecento linguisti, provenienti dall’intero spettro delle istituzioni universitarie americane, l’élite di Yale e Stanford, le università statali, e i prestigiosi college di arti liberali. Si è svolta in questa cornice la votazione della Word of the Year della American Dialect Society. La più antica tra tanti competizioni simili, e l’unica non legata a una casa editrice. Al termine di un ballottaggio tiratissimo, ha vinto tender age shelters: il contestato termine con cui l’amministrazione Trump ha ribattezzato le aree in cui sono stati confinati i bambini migranti alla frontiera col Messico, subito dopo essere stati separati dai loro genitori. È l’ennesima cicatrice verbale della turbolenza che continua a tormentare il paese, proprio come lo furono fake news e dumpster fire, vincitrici delle ultime due edizioni. Eppure, il lascito della votazione si estende ben oltre la rilevanza della parola vincitrice. Ad essere illuminante è l’intero processo: due sessioni aperte al pubblico in cui i linguisti discutono, si confrontano, si scontrano. Offrendoci un vivido spaccato dell potere della lingua di riflettere e plasmare la contemporaneità.

Il rituale è immutato dal 1990: ci si ritrova nella prima settimana di gennaio, ogni anno in una città diversa. Il giovedì sera c’è la prima riunione. Obiettivo: nominare cinque candidate per ogni categoria tematica, tra cui la parola più creativa, la parola più sconcertante, l’eufemismo dell’anno (qui una lista completa, con tutte le vincitrici). I requisiti sono volutamente vaghi: valgono parole singole, parole composte, perifrasi, hashtag, emoticon, improvvisazioni verbali. Solo due aspetti contano davvero: l’espressione deve essere stata usata in maniera significativa negli ultimi dodici mesi, e deve collegarsi a un tema di primo piano nel dibattito pubblico. Ed è qui, sotto la direzione di Ben Zimmer – redattore di The Atlantic per lingue e linguaggio e volto storico della competizione – che si scatena la discussione. Si entra nel merito delle candidate, con il live tweet degli interventi proiettato sugli schermi. E si divaga spesso e volentieri, in un’atmosfera che incarna tutti gli ingredienti tipici degli ambienti accademici: solennità, ironia, umorismo rivedibile, un po’ di tenero disagio. E, ovviamente, momenti di grande acume intellettuale.

Sono due temi a dominare. Paralleli, intrecciati. Eppure diversissimi. Una è l’aspetto politico, salito alla ribalta dall’elezione di Trump. Si manifesta in parole ed espressioni che fotografano le varie sfaccettature delle battaglie sociali che dividono gli Stati Uniti. Ci sono i riferimenti all’immigrazione, come (the) wall e caravan; i rimandi al clima, tra cui cli-fi, emergente genere di fantascienza che tratta il riscaldamento globale, e climate grief, la sofferenza emotiva dovuta alla preoccupazione per cambiamenti climatici; e i termini che testimoniano l’enorme peso delle divisioni razziali nel dibattito pubblico dell’ultimo anno. Da shithole country, l’espressione denigratoria con cui Trump si riferì ai paesi in via di sviluppo, a white caller crime, geniale gioco di parole sulla nota espressione white-collar crime (crimine dei colletti bianchi). Identifica casi in cui un cittadino bianco richiede l’intervento della della polizia dei confronti di un cittadino di colore per futili motivi. Come il famoso caso della della donna bianca di Oakland che lo scorso maggio chiamò il 911 (il nostro 113) perché due persone afroamericane stavano grigliando con le carbonelle in una zona di un parco in cui, a suo dire, era consentito farlo solo senza (la polizia avrebbe poi concluso non c’era nessuna violazione). E poi c’è la parola che avrebbe poi vinto — tender age shelters, appunto. Meno creativa, meno virale delle altre. Eppure brutalmente diretta nel riportare alla mente dei momenti drammatici. Che finiranno nei libri di storia come uno dei capitoli più controversi della presidenza di Trump.

Una bambina piange mentre sua madre viene perquisita vicino al confine tra Stati Uniti e Messico, il 12 giugno 2018 a McAllen, in Texas (foto di John Moore/Getty Images)

L’altro tema dominante è il cambio generazionale. La precarietà, l’incertezza, la frammentarietà che devono gestire i Millennial, e chi verrà dopo di loro. Una questione meno politica, più sfuggente. E su cui è molto più difficile prendere posizione, visto che implica un’assunzione di responsabilità da parte di chi ha portato a questa situazione. E dunque, direttamente o indirettamente, anche di varie generazioni di professori presenti in sala. Il messaggio della discussione, però, è chiaro: quello che è nato come terreno di sfottò tra generazioni sta diventando una tema allarmante, come pure mostrato dall’impatto devastante del pezzo di Anne Halle Petersen recentemente uscito su Buzzfeed. Tra le parole più discusse c’è weird flex but OK, un commento usato per manifestare supporto, con un po’ di scetticismo, a chi si vanta di aver fatto qualcosa di strano o assurdo. «I millennial non possiedono case né macchine. Questa parola ci permette di vantarci delle piccole stranezze che invece possediamo» suggerisce Nicole Holliday, giovane e brillante professoressa di Pomona College. Subito dopo, arriva yeet!, versatile esclamazione dalle origini incerte, che può essere usata sia per mostrare felicità ed entusiasmo, sia per esprimere lo sconcerto per una situazione imbarazzante, e dalla quale si vuole uscire al più presto.

Stilate le candidate, ci si ritrova il giorno dopo per il verdetto. Si procede per alzata di mano: prima le categorie singole e poi, finalmente, la votazione per la vincitrice assoluta. Al primo giro, yeet! arriva a 107 voti, davanti ai 71 di tender age shelter e i 68 di white-caller crime. Ma c’è ancora il ballottaggio finale, in cui la situazione si ribalta. La politica prende il sopravvento, tender age shelter vince 147 a 135. Applausi, valanghe di tweet. E polemiche, ovviamente. Da chi ritiene la parola troppo settoriale per essere davvero significativa, a chi si domanda se, da un punto di vista pratico, valga davvero la pena dare un tale risalto al dibattito politico. «Ogni riferimento a questo governo non farà che rinforzare questo governo» provoca uno spettatore, riferendosi anche alle parole vincenti delle edizioni precedenti. La risposta arriva prontamente da Geoff Numberg, illustre linguista di Berkeley. «Io invece trovo sconcertante che abbiamo prestato così poca attenzione a una parole del genere. Agli eventi a cui si riferisce, e al spaventoso eufemismo con cui questo governo ha cercato di insabbiarli».

L’aspetto più potente di un evento del genere resta però la sua portata globale. Quella di cui i linguisti americani non si rendono necessariamente conto, ma che salta immediatamente agli occhi di chi viene da altrove. Basti pensare al ricambio generazionale, aspetto cruciale e controverso anche dentro i confini italiani. La cui storia, al pari di quanto succede all’altra parte dell’Oceano, può essere fotografata da isolate, indimenticabili parole: i choosey e i bamboccioni da una parte; i rottamatori e il cambiamento dall’altra. Termini che raccontano tutte le declinazioni della questione, e che sarebbero state serissimi candidati alla vittoria se una competizione del genere si svolgesse in Italia. Oppure, si può pensare alla sensazione che, nel clima attuale, criticare qualcuno finisca per fare il suo gioco, come suggerito dallo spettatore critico di cui sopra. Un dubbio che pervade anche il dibattito pubblico italiano, vedendo ad esempio come Luca Morisi, sarcasmo a parte, sia riuscito a trasformare magicamente un pezzo ferocemente critico del New York Times in un attestato del valore nei confronti del Salvini, apprezzato con entusiasmo dai suoi seguaci. Si ritorna, in sostanza, alla questione sollevata da parole come post-verità e fake news: in una sfera pubblica in cui la componente emotiva è sempre più importante, opporre una resistenza razionale – come quella che porta a votare tender age shelter con lo spirito di denunciare il fenomeno – può essere controproducente? E’ una domanda spinosa, inquietante. Che dovrà essere presa in seria considerazione dai linguisti di qualunque generazione.